“Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione. Altre volte è come un’ubriacatura leggera, o come quando si batte la testa e ci si sente rintronati. Tra me e il mondo c’è una sorta di coltre invisibile. Fatico a capire il senso di quello che mi dicono gli altri. O forse, fatico a trovare la voglia di capire. È così poco interessante. Però voglio avere gente intorno. Ho il terrore dei momenti in cui la casa è vuota. Ma vorrei che parlassero fra loro e non a me” (C. S. Lewis, Diario di un dolore, 1961).
Si aprono, improvvisi, squarci di vuoto. Si approssima, così, un orizzonte complesso, disordinato, confuso, che fa paura, che toglie, come racconta Lewis, parole, pensieri, relazioni. Un orizzonte che modifica il nostro modo di vedere e percepire il mondo, a metà strada tra la percezione di una umanità finita, limitata, mortale e il (talvolta contrastante) desiderio di un infinito, comunque esso si manifesti e lo si intenda. La questione posta, dunque, assume la forma della seguente domanda: in che modo crescere e aiutare a crescere (è questo il senso dell’educazione) anche attraverso il governo della propria finitudine – che non può non ammettere anche la sofferenza, il distacco, la perdita − e, in questo modo, raggiungere quella saggezza capace di dare senso alla vita e alimentare speranza per il futuro?
Pubblicato: 2019-07-09