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Scuola e lavoro: un dialogo profondo sulle premesse culturali
di Alessia Vitale, Laura Formenti, Valentina Calciano   


L’articolo propone una lettura pedagogico-sistemica delle misure di alternanza scuola lavoro introdotte dalla legge sulla Buona Scuola come occasione di ripensamento delle premesse culturali profonde che fondano l’educazione al lavoro, nella società italiana.

Le rappresentazioni soggettive di attori diversi (livello micro), le concrete pratiche di alternanza (livello meso) e le cornici di significato socio-culturali più ampie (livello macro) concorrono nel creare un sistema disorganico e frammentario, che richiede la messa in atto di (nuove) prospettive riflessive, dialogiche e critiche per propiziare una composizione di sguardi che possa favorire l’apprendimento trasformativo, non solo nei singoli, ma nelle organizzazioni. Le voci di insegnanti e studenti incontrati in progetti di ricerca-formazione sull’orientamento vengono qui evocate per portare in primo piano la necessità di una costruzione condivisa – educativa e pedagogica – dei significati, a tutti i livelli del sistema.


The paper promotes a pedagogical systemic reading of the measures of dual education that were introduced by the Good School law, as an occasion to reconsider the deep cultural assumptions on education to work, in the Italian society. Subjective representations from different actors (micro level), actual practices of dual education (meso level), and the wider socio-cultural frameworks of meaning (macro level) contribute to the creation of a disorganic and fragmented system, requiring the implementation of (new) reflexive, dialogic and critical perspectives, in order to favor a composition of sights conducive to transformative learning, in individuals and well as organizations. The voices of teachers and students, met in research-intervention projects on guidance, are here evoked to bring at forefront the need for shared construction of meaning, at all the system’s levels.


1. Premessa


L’alternanza scuola-lavoro è un dispositivo che avvicina precocemente i ragazzi e le ragazze al mondo aziendale, imponendo loro di uscire dal perimetro rassicurante delle quattro mura scolastiche, dei compiti più o meno programmati, del tempo scandito dalle lezioni, per fare un’esperienza di vita. Questa esperienza si propone come un ponte tra il mondo della formazione, tradizionalmente chiuso e ripetitivo nelle proprie pratiche, rituali e contenuti, e il mondo della vita, dell’esperienza, del quale lavorare è un’attività costitutiva e necessaria, in termini pragmatici, ma anche come processo simbolico di costruzione identitaria. Identità e significati sono dunque ingredienti pedagogicamente rilevanti di qualsiasi percorso formativo centrato sull’alternanza, come strategia per educare “al lavoro, attraverso il lavoro e sul lavoro”. Ci interroghiamo tuttavia sullo scarto tra questa rappresentazione, forse troppo semplificata e idealizzata, e le premesse culturali profonde che entrano in gioco nell’alternanza e sfidano la capacità reale di trasformazione del sistema formativo e lavorativo, per cogliere fino in fondo le opportunità aperte dalla riforma.

C’è il rischio che l’alternanza scuola-lavoro sia interpretata in modo riduttivo come un modo per adeguare il mondo della formazione alle esigenze del mercato, formando precocemente i giovani alle mansioni future, orientandoli in senso stretto, e perdendo in questo modo la spinta “critica, costruttiva e creativa” di un dispositivo che richiederebbe invece un dialogo profondo, autentico, e dunque difficile, tra mondi culturali diversi. La prospettiva pedagogica e critica, centrata sull’approccio sistemico, ci spinge a mettere in gioco la riflessività, come capacità di leggere e connettere le relazioni e le interazioni a diversi livelli: micro, meso e macro. Ci interroghiamo infatti, in questo articolo, sulle rappresentazioni soggettive, sulle pratiche di intervento e sulle condizioni di sistema che possono favorire l’apprendimento trasformativo, non solo nei singoli, ma nelle organizzazioni scolastiche e lavorative che si interfacciano a livello di reti e territori, dove si confrontano culture di apprendimento, di orientamento e di formazione al lavoro profondamente diverse. Ci interroghiamo sulle rappresentazioni e sulle voci degli insegnanti e studenti incontrati in diversi progetti, oltre che sulle nostre, come esponenti di un gruppo di ricerca multi-professionale[1] che mette al primo posto la costruzione condivisa di significati, a partire dall’esperienza incorporata e dalla rappresentazione estetica dei processi di orientamento (Formenti, Galimberti, Luraschi, Rossi & Vitale, 2017; Formenti & Vitale, 2016; Formenti, Vitale, Galimberti, Luraschi, & D’Oria, 2015; Luraschi & Formenti, 2016).

La domanda pedagogica alla base di questo lavoro riguarda il senso e il significato dell’imparare e del lavorare, e come si connettono tra di loro nelle pratiche di alternanza, dal punto di vista dei diversi attori del sistema. Il senso del lavorare è indubbiamente cambiato e cambia rapidamente nella società tardo moderna o liquido-moderna (Bauman, 2000), in relazione al declino dei sistemi produttivi standardizzati, all’emergere di reti profondamente eterogenee e al dominio sempre crescente dell’informazione e della conoscenza (Alessandrini, 2012). La rapida pluralizzazione delle forme e dei modi del lavoro non corrisponde però a un altrettanto rapido allineamento delle premesse culturali, specialmente nelle generazioni più mature (insegnanti, genitori, vecchi imprenditori). Come si posizionano i ragazzi, tra autonomia e insicurezza, autoimprenditorialità e responsabilità? Quali urgenze segnalano gli insegnanti, specialmente nei licei, perturbati da una riforma che appare disorientante a molti di loro?


2. Senso e significato pedagogico del lavorare: premesse, vincoli e possibilità


Lavorare è diventare adulti, riconoscersi ed essere riconosciuti come parte attiva e produttiva di un sistema/organizzazione che fissa le proprie finalità indipendentemente dai bisogni e desideri del singolo (non di rado, in effetti, subordinandoli o negandoli). Lavorare è integrarsi in una specifica organizzazione, con una sua cultura del lavoro, oggi più sfaccettata, frammentaria e incerta, ma sempre guidata da presupposti latenti e discorsi che è importante saper decifrare se non si vuole restare schiacciati nelle logiche del sistema. Lavorare, oggi, è misurarsi con l’incertezza, che diventa possibilità solo per coloro che imparano a navigare a vista e ad evolvere nell’inatteso (Morin, 2001).

Il tema della partecipazione – attiva, consapevole e democratica – alla vita produttiva e sociale di una comunità, del proprio Paese, è tra gli obiettivi primari della Comunità Europea (Lucio Villegas, 2014), ma il suo raggiungimento richiede un dispositivo che sostenga il posizionamento attivo dei learner; l’alternanza scuola-lavoro potrebbe essere una di quelle esperienze precoci che lo favoriscono, perché è innanzitutto un luogo di pratica e, come sosterremo in queste pagine, un’occasione di riflessione e trasformazione.

Lavorare è misurarsi quotidianamente con l’azione finalizzata, dunque con la fatica, con la noia di compiti non graditi, o perfino incomprensibili, con la necessità di coordinare le proprie azioni con quelle di altri, in un contesto culturale dalle regole ignote, le cui relazioni sono spesso opache e si apprendono solo facendo, e non perché qualcuno te le spieghi. Per molti ragazzi e ragazze, fare esperienza di questo è già una novità assoluta.

Lavorare è oggi in modo sempre più chiaro una fonte importante e costante di apprendimento, sviluppo e innovazione (Martínez Lucio & Mustchin, 2014): la maggior parte dei lavori e delle professioni sono sottoposti a continua riconfigurazione, quindi richiedono/offrono possibilità di apprendimento.

Lavorare è, però, anche guadagnare: lavoro e denaro sono, nella nostra società, indissolubilmente legati. Senza denaro non si vive o si vive male, là dove tutto si compra e si vende, anche il tempo. Senza scambio economico, senza retribuzione, non si può parlare propriamente di lavoro. Opus e lavoro sono dissociati, non coincidono o coincidono sempre meno in una società che ha moltiplicato, in modo forse indebito, le occasioni di presenza in azienda di “operatori non lavoratori” – stagisti, apprendisti, tirocinanti e oggi anche studenti liceali – con la promessa di acquisire abilità e competenze per arricchire il curriculum, ma anche un grave rischio di mistificazione. L’idea dominante di apprendimento, centrata sull’acquisizione cumulativa di crediti e competenze certificate, spendibili nel mercato del lavoro, è una rappresentazione parziale, funzionale alle politiche neo-liberali che richiedono forza-lavoro flessibile e adattabile, ma irrispettosa dell’ecologia dell’apprendere e del vivere.

L’alternanza non è dunque equiparabile a un’esperienza “di lavoro”, semmai consente di sperimentarsi in “attività” (nell’ottica del learning by doing, si veda Sicurello, 2016 e dell’apprendimento situato, si veda Fabbri, Melacarne & Ferro Allodola, 2015), connesse da un legame di senso ai progetti formativi individuali e all’interno di un’esperienza protetta, in molti casi solo simulata, mancando la reale responsabilità dei soggetti per le conseguenze delle proprie azioni. L’accento sulle attività – ovvero su un agire contestualizzato, occasione di narrazione, riflessione e auto-progettazione – ci consente di enfatizzare il valore educativo di questa esperienza, che si caratterizza primariamente per essere, come si diceva sopra, esperienza di vita fuori dalla scuola e dunque preziosa, ma solo se inserita con intelligenza in una riflessione più ampia sul percorso formativo. Per comprendere appieno senso e significato dell’alternanza, si rende obbligatoria una riflessione sui processi organizzativi e sul progetto formativo complessivo della scuola, dunque una re-visione critica del mondo culturale che essa rappresenta: non più a sé stante, arroccato e talvolta involuto nei propri discorsi, ma in dialogo con la comunità, il territorio, le altre organizzazioni e agenzie formative. Un dialogo non scontato, che richiede grande cura e attenzione, perché sfida le premesse culturali più profonde.

Ad esempio, chi si occupa di orientamento sa quanto i discorsi e le pratiche dominanti, nella scuola, siano intrisi di premesse latenti per cui ci si limita a orientare in base alla performance scolastica, escludendo a priori chi non dimostra di avere sufficienti competenze accademiche. Un recente progetto di ricerca-formazione sull’orientamento nei diversi ordini di scuola (Formenti et al., 2017) ha confermato le tendenze pregiudiziali dei famosi “consigli orientativi”, in larga misura basati sui voti e inconsapevolmente plasmati da pregiudizi di genere, censo, classe e origine etnica.

L’epistemologia del sistema scolastico italiano continua a confermare – nei fatti, nonostante e perfino contro le riforme – la scissione e la relazione gerarchica tra le diverse tipologie del sapere – esperienziale, presentazionale, proposizionale e pratico (Heron, 1996) – attribuendo al sapere proposizionale, ovvero alla teoria, ai testi, alle “spiegazioni”, una posizione predominante su tutti gli altri. D’altra parte, anche il mondo del lavoro ha i suoi discorsi dominanti, e altrettanto riduttivi, nei quali il funzionalismo e le leggi del mercato premiano solo il sapere utile, immediatamente spendibile. Le politiche nazionali ed europee spingono verso la formazione tecnica, sottovalutando pesantemente il bisogno di operatori di cura, di bellezza, di cultura, di educazione in senso lato, che la nostra società esprime a tutti i suoi livelli e con urgenza; politici, associazioni di imprenditori e aziende presentano nelle occasioni di orientamento la formazione tecnica come la più necessaria e rispondente ai bisogni della società, svalutando ogni forma di lavoro e di sapere che appaia “non produttivo”, gratuito, inutile, come quello tradizionalmente impartito dai licei. L’alternanza pone problema, infatti, soprattutto per i licei, che si sono trovati in poco tempo a dover organizzare processi dei quali non sono state chiarite ancora a sufficienza le finalità e le priorità.

Tra una scuola che privilegia la teoria e un mercato che richiede competenze pratiche, la nostra domanda è: può l’alternanza riuscire a comporre teoria e prassi, e attraverso quali tipi di processi e dispositivi?


3. Alternanza: quale modello formativo?


L’alternanza scuola-lavoro in Europa si presenta come un fenomeno variegato, ogni Paese infatti ha strutturato i propri percorsi in base alle radici storico-culturali e alle premesse ideologico-politiche del proprio sistema formativo, ovvero principalmente a partire da cosa si intenda per “lavoro” e “formazione”. Si possono identificare due grandi aree geografiche, che sembrano corrispondere a due modelli diversi:

  • · nel modello nord europeo – rappresentato principalmente da Regno Unito, Danimarca e Germania – i percorsi di alternanza sono tra i più “integrati agli ordinari curricula scolastici” (Vecchiarelli, 2015, p. 35), ma il mandato formativo è affidato in buona parte direttamente alle imprese ospitanti; l’alternanza appare come la manifestazione di una cultura integrata tra formazione e lavoro, dove le aziende predispongono in loco del personale ad hoc con il compito di accompagnare il percorso formativo;
  • · nel modello mediterraneo – messo in atto in Italia, Francia e Spagna – il mandato formativo non è così condiviso e rimane attualmente principalmente a carico della scuola, che resta nella forma e nella pratica il polo garante delle ricadute dell’alternanza in termini di apprendimento: sono infatti gli insegnanti a coordinare e gestire le attività formative in accordo con il tutor aziendale.

Nell’economia dei paesi nord europei, in particolare nel modello collettivista tedesco, l’integrazione tra scuola e lavoro “è resa possibile ed efficace dalla partecipazione delle aziende e dei lavoratori alla gestione del sistema stesso, tramite le loro rappresentanze associative” (Ballarino, 2013, p. 9).

Sono gli attori in gioco a fare la differenza, a costruire il sistema. L’investimento dello Stato e delle scuole è rilevante, come nei paesi mediterranei, ma integrato con quello di altri attori pubblici, non statali, in particolare le organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Come mostra Ballarino (2013), il diverso coinvolgimento produce effetti positivi e negativi: il modello collettivista, forte nell’integrazione tra scuola e formazione aziendale, mira innanzitutto alla costruzione di competenze professionali, favorendo così un alto livello di qualificazione, ma è lento nel rispondere alla domanda d’innovazione. Il modello statalista, invece, privilegia la costruzione di percorsi scolastici tecnico-professionali, integrando scuola e formazione sul posto di lavoro, ma premiando le competenze accademiche e generaliste. Questo porta a un’accademizzazione della formazione professionale e indebolisce il rapporto con le aziende.

In Italia le riforme guardano all’Europa, ma richiedono un adattamento alla cultura locale, imprenditoriale, alla storia del sistema formativo. La Riforma Moratti 53/2003 e il d.l. 77 del 15 aprile 2005 conteneva già l’alternanza come possibilità didattica, con l’inserimento di ragazzi e ragazze tra i 15 e i 18 anni in un ambiente lavorativo come contesto di apprendimento, e prevedeva un ventaglio di attività – stage, visite aziendali, tirocini orientativi-formativi e imprese formative simulate – da definire sulla base di specifiche convenzioni. La formazione professionale e tecnica era il suo bersaglio primario.

Con la “Riforma del sistema nazionale d’istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti”, Legge n. 107 del 13 luglio 2015, l’alternanza viene messa a sistema e diventa snodo centrale nel rapporto complessivo tra mondo della formazione e mondo del lavoro, in “un processo (non privo di criticità) di progressiva integrazione della formazione on-the-job nei curricoli scolastici” (Torre, 2016, p. 138). La “Buona Scuola” sancisce infatti l’obbligo per tutti gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado di effettuare, nel corso del triennio, almeno un’esperienza di alternanza scuola-lavoro, fissandone i termini temporali a 200 ore per i licei e 400 ore per gli istituti tecnici e professionali. La struttura ospitante è pensata come luogo di apprendimento, in cui lo studente dovrebbe – attraverso l’esperienza – sviluppare nuove competenze, consolidare quelle apprese a scuola e acquisire una cultura del lavoro. La finalità è superare l’annosa disgiunzione tra momento formativo e operativo, attraverso lo strumento della co-progettazione dei percorsi, che prevede una necessaria partnership, conoscenza reciproca e condivisione degli obiettivi; tuttavia, nonostante le numerose sperimentazioni in atto, la co-progettazione non sembra affatto garantita, come evidenziato anche da una recente ricerca (Tino & Fedeli, 2015), nella quale le interviste semi-strutturate a due gruppi di partecipanti mettono in luce la mancanza di un chiaro e condiviso modello formativo per l’alternanza. Come sottolineano le autrici, è difficile co-progettare in questa incertezza, dove “la mancanza di una definizione condivisa di ciò che gli studenti devono apprendere, di quali competenze devono sviluppare, genera incoerenza e disorganicità in termini di regole, costruzione di artefatti, composizione della comunità coinvolta e divisione del lavoro” (p. 227). Le complessità organizzative e l’assenza di condivisione circa i significati e i vissuti, lamentate da insegnanti e studenti, determinano un sistema frammentario, lontano dagli obiettivi ambiziosi della riforma e gravido di paradossi e mistificazioni, che attualmente sembra procedere soprattutto “per iniziative temporanee e palliativi di ogni genere” (Giovannella, 2016, p. 9).

Le voci critiche e polemiche non mancano; scrive il giornalista Christian Raimo (2016) in un’inchiesta dapprima pubblicata sull’Internazionale, poi rilanciata in rete da diversi siti: “Coinvolti obbligatoriamente in percorsi ancora così sgangherati di alternanza, la maggior parte degli studenti liceali non conosce gli elementi essenziali della storia operaia, dei diritti del lavoro e così via. Quanti studenti oggi sanno leggere una busta paga? […] E ora il risultato potrebbe essere che un ragazzo di diciott’anni impari i valori di Zara o le soft skill di McDonald’s e non abbia mai sentito parlare di rappresentanza sindacale, non abbia idea di come funzioni il jobs act, non sappia dell’esistenza dello Statuto dei lavoratori. Che insomma l’alternanza faccia crescere nei ragazzi solo la coscienza della necessità di adattarsi al mondo del lavoro, eliminando qualunque consapevolezza e spirito critico”.

La preoccupazione espressa dall’articolista mette in dubbio la capacità della riforma di sostenere la scuola nel suo ruolo di formazione dei cittadini al pensiero critico, alla lettura dei contesti, alla conoscenza di sé e all’auto-determinazione. Compito della scuola democratica è offrire a tutti gli studenti e studentesse gli strumenti e le opportunità per posizionarsi, come (futuri) adulti e cittadini, in un mondo complesso. Questo argomento rilancia e sposta su un piano più alto – filosofico e politico – le criticità del rapporto tra scuola e imprese già rilevate dalla letteratura (Vecchiarelli, 2015):


  • la difficoltà per le scuole di attivare un dialogo inedito, tutto da costruire, con le imprese del territorio;
  • la difficoltà di motivare le imprese all’alternanza;
  • le asimmetrie informative tra i due mondi, che creano uno iato tra orientamento scolastico e orientamento lavorativo;
  • · l’inefficacia del titolo di studio come “segnale del potenziale lavoratore” (p. 50).


Se “da un punto di vista pedagogico-didattico, l’alternanza s’inserisce in un contesto di learning-by-doing e apprendimento situato e metodologie applicate in modelli formativi di impronta socio-costruttivista finalizzate allo sviluppo di competenze trasversali” (Sicurello, 2016, p. 7; si veda anche Fabbri et al., 2015), ciò che viene riportato dagli studenti è spesso ben distante. Lo sviluppo di senso e significato circa l’esperienza in azienda è affidato all’iniziativa dei singoli, spesso lasciato nell’implicito, o solo occasionale. Non mancano esempi di deviazione tout court dagli obiettivi formativi, per colmare bisogni e sopperire a carenze di personale dell’azienda, fenomeni che devono essere monitorati e che potremmo attribuire da un lato al proliferare, nel nostro Paese, di pratiche scorrette e aberranti nel passaggio al mondo del lavoro (si pensi a quanti stage e tirocini illegali e illegittimi sono proposti ai giovani, “per fare curriculum”), e dall’altro alla difficoltà della scuola e delle agenzie formative nel farsi carico di garantire e co-costruire la coerenza dei processi di inserimento.

Sulla carta dovrebbe essere ‘un’esperienza formativa innovativa per unire sapere e saper fare’ ma secondo l’Unione degli Studenti della Puglia si è trasformata in sfruttamento. Ci affidano lavori che dovrebbero essere assegnati ai dipendenti: le aziende ci usano come manovalanza gratuita, dicono i giovani” (Corlazzoli, 2017).

Che cosa c’è dietro simili affermazioni? Quale storia ci raccontano? Una storia di “ordinario sfruttamento”? Un’incomprensione del contesto da parte dei ragazzi? Un’insofferenza diffusa, anche legata al paradosso di “fare formazione al lavoro”, sapendo che – dopo – di lavoro non ce ne sarà? Una mancanza di presidio da parte del mondo adulto e istituzionale? E quale “cultura del lavoro”, quali valori vengono insegnati e appresi, in questo modo?

Lo scenario che abbiamo tratteggiato per sommi capi mostra alcuni nodi fondamentali dell’alternanza scuola-lavoro, rivelatori della presenza, nel sistema scuola-lavoro-società, di una cultura profonda, se non di uno scontro profondo – seppure implicito – tra culture diverse, che vanno interrogate pedagogicamente e in modo critico.


4. Agli studenti il compito di creare connessioni


“Mi chiamo Aurora e frequento il liceo classico, svolgo lo stage nella biblioteca della sede di Scienze [...] Ricollochiamo i libri e facciamo attività di front office. Mi piace perché tutte le persone che ci sono qui sono gentili, mentre io ho un sacco di ansia. L’esperienza di archivio può essere vissuta in diversi modi. Quando ti trovi in un posto che non vuoi, hai sempre due alternative: o ti metti svogliato o metti in gioco te stesso” (Aurora, 17 anni, III).

In un incontro di laboratorio[2] sull’alternanza scuola-lavoro, Aurora racconta e riflette sulla fatica di svolgere, per più ore al giorno, un lavoro poco stimolante. Discutendone con i suoi pari, esplorando con loro diversi punti di vista, riesce a creare connessioni di senso tra questa esperienza e i diversi livelli di apprendimento che ha prodotto. Le persone incontrate, il suo tutor aziendale, il contesto nel quale ha svolto la sua attività diventano occasioni formative nel momento in cui assume un posizionamento attivo e critico rispetto all’intera esperienza: un posizionamento che cerchiamo di favorire attraverso il dispositivo laboratoriale (Pasini, 2016). Aurora viene dal liceo classico, il suo progetto l’ha portata in università – non come luogo futuro, forse probabile, di studio, ma come luogo di lavoro: un’organizzazione complessa, che svolge funzioni interconnesse e impiega centinaia di persone con mansioni e competenze molto articolate. I gruppi riflessivi in ingresso e in uscita aiutano gli studenti a mettere a fuoco questa complessità e a interrogarsi sui loro posizionamenti.

L’alternanza scuola-lavoro può favorire – come mostra questo esempio – non solo l’acquisizione di abilità e competenze tecniche, ma anche (e soprattutto) apprendimenti relazionali, conoscenze di processo, strategie di problem solving, adattamento al contesto e modifiche dello stesso, apprendimenti individuali e collettivi. Il nesso indissolubile e organico tra educazione ed esperienza (Dewey, 1938), base fondamentale della cultura e della conoscenza, non è tuttavia garantito a priori: le esperienze diventano educative solo quando sono feconde di altre esperienze, e ciò dipende dalla qualità dei processi – prima, durante e dopo l’inserimento – più che dalle esperienze in sé. Lasciarsi incuriosire e divenire esploratori dell’esperienza vissuta, interrogandola mediante un approccio narrativo composizionale (Formenti, 2017), in itinere e/o a posteriori, incrementa lo sviluppo di nuovi sguardi, genera trasformazioni, riposizionamenti e posizionamenti consapevoli.

Il laboratorio riflessivo, inteso come movimento d’insieme volto a creare teorie/pratiche soddisfacenti, porta a ri-narrare l’esperienza e talvolta a cambiarne il significato, tingendola di nuovi colori, emozioni e sfumature; il dialogo autentico con gli altri e con sé stessi accompagna gli studenti nella ricerca di risposte alle proprie domande e fa emergere nuovi quesiti. Perché l’alternanza scuola-lavoro diventi un’esperienza trasformativa e orientante, è cruciale intrecciarla a una continua e paziente ricerca di senso, che può renderla terreno fertile sul quale far fiorire o rifiorire apprendimenti.


L’alternanza raccontata dagli studenti: dove mettere il “nuovo”?


Abbiamo chiesto agli studenti di raccontare che cos’è per loro l’alternanza scuola-lavoro, per sollecitare e incontrare il loro sguardo, svelando rappresentazioni, considerazioni, scoperte e perplessità. Il metodo formativo impiegato nei laboratori per l’orientamento “LAB’O”, messo a punto da un gruppo di pedagogisti del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca[3], allestisce spazi di pensiero condiviso, in chiave narrativa e costruttivista, basati sull’esplorazione estetica dell’esperienza, sul dialogo e sulla moltiplicazione degli sguardi, nell’intento di offrire ai partecipanti la possibilità di riflettere e discutere sulle proprie rappresentazioni, in modo da poter effettuare scelte deliberate e trovare vie d’uscita agli inevitabili dilemmi della formazione. Un piccolo esempio è offerto proprio da Aurora, quando trova la sua personale via d’uscita: “o ti metti svogliato o metti in gioco te stesso”.

I laboratori di orientamento sono luoghi creativi e pensosi (Mortari, 2002), che mettono in atto una pedagogia dell’autoconsapevolezza: i partecipanti sono invitati a riflettere sulle proprie strategie, sogni, aspettative, in relazione ai vincoli, alle conoscenze e alle informazioni che incontrano nel mondo. L’invito a interrogarsi su scelte che riguardano il futuro, ma sono fortemente radicate nel passato e nel presente, avviene in una dimensione laboratoriale, accentuata dall’uso di linguaggi incorporati, artistici e narrativi, che vanno dall’esplorazione dello spazio al gioco, alla scelta di immagini, alla scrittura creativa, alla creazione di opere d’arte e performance collettive. Queste attività pongono in primo piano, in prima istanza, la soggettività dei partecipanti, l’unicità della loro storia. Tuttavia, LAB’O va oltre il piano puramente soggettivo, in quanto mirato ad apprendere insieme qualcosa in più rispetto alle proprie scelte o a sé stessi nell’atto di scegliere (Vitale, 2012); il modello infatti è eco-sistemico, partecipativo e incorporato, volto a sviluppare pensiero divergente (Guilford, 1950), a incentivare altravisione, autoconsapevolezza emotiva e gestione creativa dei conflitti (Sclavi, 2003).

I laboratori per l’alternanza, nello specifico, prevedono incontri di gruppo (10-15 studenti) della durata di 2-3 ore, sia in ingresso che in uscita, per dare una cornice di senso al percorso, facendo leva sulla presenza contemporanea di studenti provenienti da scuole diverse (il vincolo posto dall’università è che ogni scuola possa inviare solo un piccolo numero di studenti/esse ogni anno) e inseriti in parti diverse dell’ateneo. Questa eterogeneità, messa a sistema, è funzionale non solo alla discussione, ma al percorso complessivo, che utilizza il principio della differenza generativa, ovvero una “differenza che fa la differenza” (Bateson, 1979). È anche significativo che i conduttori dei laboratori siano studenti universitari senior (stagisti della laurea magistrale in Scienze Pedagogiche), per creare un contesto relativamente libero, di narrabilità e dialogo profondo e autentico, e far emergere posture e sguardi a partire dai quali interrogarsi e interrogare le esperienze. In effetti, l’alternanza si presta a una riflessione su più livelli: il luogo di inserimento, il contesto organizzativo, il rapporto con gli apprendimenti scolastici, ma anche lo sguardo e le rappresentazioni, le aspettative disilluse o meno, le scoperte su di sé, i limiti e le potenzialità inaspettati, sono dimensioni emergenti dalle storie dei giovani protagonisti. In esse sono anche contenute teorie locali di cosa sia l’alternanza dal punto di vista degli studenti: “Per me l’alternanza scuola-lavoro significa imparare cose nuove, conoscere un po’ il mondo del lavoro. All’inizio quando ho saputo che sarei andata in biblioteca non ero affatto contenta, più che altro perché studio un’altra cosa e sarebbe stato più opportuno andare in un’azienda. Nonostante ciò stare qua mi ha cambiata… Prima ero timidissima, non parlavo con nessuno che non conoscessi bene, ora invece ho imparato a stare a contatto e interagire tutti i giorni con gente nuova” (Sasà[4], 16 anni, III).

“L’alternanza scuola lavoro dovrebbe essere un’occasione di contatto col lavoro. Bisognerebbe passare del tempo in un’azienda per capire come funziona il mondo del lavoro ma molto spesso ciò non accade. È utile invece per entrare in contatto con materie nuove e avere un quadro più ampio sulle possibilità” (Temporeggiatore, 17 anni, III).

“L’alternanza scuola lavoro vuol essere un’esperienza lavorativa volta appunto a far familiarizzare lo studente con il mondo lavorativo. Sotto certi aspetti è un’esperienza positiva perché ti offre l’opportunità di fare esperienze diverse e magari anche chiarirti delle idee in merito alla scelta universitaria o riguardo a ciò che ti piacerebbe fare nella vita. Sotto altri aspetti invece può essere un peso. Le esperienze proposte spesso sono poco stimolanti e noiose, inoltre, richiede molto tempo… può essere difficile conciliarla con la scuola e la vita extrascolastica” (K, 17 anni, IV).

Prima di iniziare le loro ore di alternanza, gli studenti/studentesse si aspettano “un’esperienza nuova, che faccia crescere e soprattutto che faccia capire come funziona l’ambiente lavorativo”. Ha senso, per loro, in quanto opportunità di creare relazione e dialogo tra i due mondi, che vivono come separati. Si aspettano di conoscere, familiarizzare, capire come funziona. Questo dovrebbe chiarire le idee, aiutare a scegliere, avere un quadro più ampio sulle possibilità. Ma ciò non sempre avviene: avvengono invece altri processi, in parte inattesi e disordinati, dove lo spiazzamento, il disorientamento, i dilemmi sono la leva di possibili prese di coscienza. Le premesse ingenue, lineari, dettate dai discorsi dominanti, portano gli studenti a vivere di default un confronto/scontro tra rappresentazioni, aspettative e realtà: succede frequentemente, in fase di chiusura, di doversi misurare con la delusione causata dall’insofferenza per aver svolto lavori ripetitivi, non scelti, lontani dai propri interessi/competenze o dal corso di studi di provenienza. Accompagnarli in un esame realistico delle loro competenze, del contesto e nel contempo scoprire e valorizzare gli apprendimenti nascosti è una funzione pedagogica che dovrebbe essere esercitata dalla scuola (almeno nel modello mediterraneo), necessaria per elaborare il disorientamento in chiave formativa. Creare spazi nei quali sia possibile interrogare il senso e significato dell’esperienza, a partire dall’incontro di voci e storie, è una via di educazione al e nel lavoro, che nutre la consapevolezza e lo sviluppo di nuovi sguardi su di sé, sul proprio profilo di apprendimento, sull’organizzazione ospitante, sui passaggi successivi. L’alternanza scuola-lavoro, sia essa vissuta positivamente o meno, può così divenire orientante, formativa, generativa.


5. Come insegnante di liceo “non ne capisco il senso”


“Io non capisco il senso dell’alternanza al liceo, quest’ultimo nasce con un altro intento, più alto: formiamo al pensiero, all’aprire la mente. Con questa alternanza ci dobbiamo inventare connessioni con contesti lavorativi che non esistono, perché il liceo di fatto non è nato per averne e perché il mondo del lavoro si è ormai frantumato” (Luca[5], docente di liceo classico Milano, maggio 2016).

L’esperienza dell’alternanza si sta rivelando come una vera sfida per molti insegnanti e scuole, in particolare i licei. Una recente ricerca (Torre, 2016) condotta negli istituti secondari piemontesi evidenzia una percezione diffusa di inadeguatezza; sembrerebbe che “l’ostacolo più complesso possa essere costituito proprio dalla scarsa importanza che i docenti attribuiscono alle esperienze di apprendimento sul luogo di lavoro e alla difficoltà a trovare un punto d’incontro che faciliti lo scambio educativo tra mondo della scuola e mondo del lavoro, nell’interesse soprattutto dello studente” (p. 151). Sulla stessa linea d’onda sembra essere Luca, giovane professore di un liceo della periferia milanese, coinvolto in un corso di formazione per docenti neoassunti e portavoce di un disagio molto concreto, legato alla difficoltà di avviare e mantenere i contatti con le aziende e reperire contesti/esperienze/attività lavorative idonee a un progetto formativo. Il suo disagio è anche più simbolico e sottile, perché l’idea stessa di alternanza, e la sua pratica, sfidano in profondità le premesse della formazione liceale, saldamente ancorata al dualismo mente e corpo, pensiero e azione. Perché formare la mente dovrebbe essere separato dal preparare all’azione? Come riconnettere le polarità?

Il dualismo si ritrova a livello dei molteplici e diversi percorsi di alternanza, che possono accentuare maggiormente la dimensione formativa oppure quella lavorativa: tra i primi possiamo considerare le diverse forme di stage, tirocini e praticantati, nonché le esperienze di reinserimento-ponte tra scuola e lavoro proposte ai mature student (come i laboratori territoriali promossi dai CPIA); tra i secondi annoveriamo le esperienze formalizzate tramite contratto, come l’apprendistato. L’idea di Luca è che, in un contesto frammentato e poco chiaro, questa differenza rischi di annullarsi. Ci racconta che i ragazzi sono lasciati a se stessi, che gli insegnanti si sentono “tirati dentro” un grande ingranaggio costrittivo, che non prevede strumenti di sostegno al lavoro di tessitura richiesto, con il territorio e le imprese, perché il processo prenda davvero senso. Una soluzione escamotage, molto confusiva, ha visto diversi insegnanti prendere accordi con l’università, luogo di lavoro sui generis, chiedendo di allestire per i loro studenti e studentesse un’esperienza che è a tutti gli effetti formativa, non certo lavorativa, specialmente quando il tutor aziendale è un docente.

Luca ha ragione nel sostenere che l’alternanza “impone la necessità di una ri-definizione dei curricoli scolastici” (Sicurello, 2016, p. 12) e del senso stesso della scuola nella sua relazione con il lavoro. Uno studio (Pozzi, 2007) effettuato nel territorio di Monza e Brianza, in tempi in cui l’alternanza non era obbligatoria, racconta un percorso di ricerca-azione volto a creare un modello territoriale di alternanza (in quel caso, volto primariamente a contrastare la dispersione scolastica); tale modello proponeva di superare l’idea riduttiva di un addestramento a compiti lavorativi (un’interpretazione diffusa, non solo tra i ragazzi), per invitare il tutor aziendale a pensarsi come “maestro di bottega”, ovvero qualcuno che favorisce un’iniziazione a 360°, un mentore, un conoscitore profondo del mestiere. E, aggiungiamo noi, dell’organizzazione complessa nella quale è attore consapevole (ma lo è davvero?).

In un’epoca di frammentazione e delocalizzazione del lavoro, quali sono i luoghi dove ancora s’impara “un mestiere”? Quali sono i lavoratori consapevoli della loro posizione nel sistema? Siamo tutti chiamati a rivedere in senso critico le nostre metafore, che agiscono a livello inconsapevole, ma potente.

Lo iato tra formazione tecnico-professionale e formazione umanistica si allarga, anche perché il meta-messaggio latente nella scuola italiana, sostiene Bertagna (2006), è che “si studia per non lavorare” e “si lavora perché non si è studiato”. L’alternanza nei licei, proprio per i paradossi che genera, in contesti ancora in parte gentiliani, mette in moto la necessità di ridiscutere queste premesse; per essere autenticamente innovativa ed efficace, ci richiama a un “dover essere pedagogico” (Bertagna, 2016, p. 5) che sfida in profondità la rappresentazione stessa di che cosa sia la scuola, il sapere, l’apprendimento.


6. Costruire ponti tra mondi: una sfida pedagogica e una possibilità trasformativa


Per poter interpretare i cambiamenti in atto e darne una lettura pedagogica che possa sostenere proposte formative adeguate è indispensabile avere in mente la complessità delle reti di relazioni, valori e concetti (culture) che si muovono intorno all’alternanza. Una misura, questa, e va sottolineato, nata innanzitutto dall’esigenza concreta di rispondere ai cambiamenti epocali e alle trasformazioni in corso nel mondo del lavoro e nella società tardo-moderna. L’alternanza non viene da sola: è venuta formandosi insieme ad altri concetti di grande densità teorica e impatto politico: l’apprendimento per competenze, l’individualizzazione dei percorsi, la soggettività, autonomia e flessibilità dei discenti, sono parole-chiave di un momento storico nel quale la precarizzazione del lavoro, l’incertezza generalizzata e la globalizzazione dei mercati ridisegnano mappe, vincoli e possibilità per un/una giovane che si affaccia alla vita.

Le politiche recenti in termini di educazione al lavoro sono piene di paradossi e contraddizioni, a partire da quel concetto di lifelong learning (Bohlinger, Haake, Helms Jøorgensen, Toiviainen & Wallo, 2015) che sembra aver soppiantato, nei documenti ufficiali e nella letteratura scientifica, l’idea di educazione, comportando uno spostamento netto, nelle tematiche e nelle priorità politiche, dall’educazione democratica a un’enfasi eccessiva sullo sviluppo delle competenze individuali e sull’adattamento al mercato, disegnando un’idea di formazione al servizio del capitalismo globale (Barros, 2012; Milana, 2012; Zarifis & Gravani, 2014). I luoghi di lavoro – specialmente quando si parla di grandi aziende – hanno progressivamente ridotto la loro capacità di riconoscere le condizioni locali e territoriali dell’apprendimento, di favorire la partecipazione democratica dei dipendenti alla vita aziendale e di sostenere la crescita professionale dei lavoratori, oggi interpretata riduttivamente come conformità alle regole e al sistema (Casey, 2012). Termini come “autonomia” ed “empowerment” rischiano di non avere più senso; eppure è proprio su questi concetti che si gioca il valore formativo dell’alternanza, come di ogni esperienza che non è formativa in sé e per sé, ma lo diventa quando il soggetto che la vive riesce a integrarne il senso e il significato.

Complessità e livelli embricati

In termini sistemici, la ricerca sull’alternanza – così come le pratiche di alternanza – non può che essere interdisciplinare, complessa e plurale, sia per rispondere alla dinamicità e caoticità di un campo molto vasto quale è l’apprendimento nel/sul lavoro (Fenwick, 2010), sia per comporre livelli e dimensioni contraddittori e ricorsivi, propri dei sistemi complessi. Non esistono soluzioni semplici e lineari ai problemi posti da queste novità, proprio perché agiscono a livello sistemico, dove ogni variabile è legata a molte altre, interdipendenti, aggrovigliate (entangled), per cui uno stesso evento può assumere significati diversi – anche opposti e inconciliabili – in momenti diversi.

Quali sono le condizioni necessarie perché l’alternanza produca effettive trasformazioni? C’è il rischio che nulla cambi, che l’esercizio resti a un livello superficiale, di adempimento burocratico, oppure – più grave – che il ponte scuola-lavoro sia a senso unico, ovvero costruito per piegare le finalità della formazione alle esigenze del mercato. L’alternanza scuola-lavoro, come abbiamo visto, smuove le acque, affascina, disturba, ingaggia, costringe a trovare soluzioni: in sintesi, porta dentro i sistemi una “differenza che fa la differenza”, che diventa informazione (Bateson, 1979), aprendo dunque possibilità evolutive non solo a livello micro (per i singoli individui), ma anche meso (nei circuiti organizzativi e interattivi) e macro (nella società o almeno in una sua porzione territoriale). Apre anche molte sfide e genera paradossi, contraddizioni e dilemmi disorientanti. Secondo la teoria dell’apprendimento trasformativo di Mezirow (2016), tali tensioni non sarebbero da leggere come problemi, ma come occasioni per “imparare a pensare come un adulto” (pp. 65-91); questo richiede un investimento di attenzione specifico, da parte degli attori coinvolti, sulla costruzione di significato, alla ricerca dei posizionamenti, delle cornici e dei presupposti che si svelano nel conflitto tra le (due)[6] culture. Perché l’esperienza di alternanza sia effettivamente formativa e adultizzante diventa indispensabile, dal punto di vista pedagogico, rileggerla attraverso pratiche riflessive e dialogiche, capaci di restituire le tensioni e di aprire possibilità.

Il dialogo riflessivo, come abbiamo detto, è una via di intervento e di ricerca per costruire meta-conoscenze, approfondendo la comprensione di sé, degli altri e del contesto, prendendo in considerazione la possibilità di agire deliberatamente, di assumere rischi e di prendere voce. La questione della voce degli studenti (Grion & Cook-Sather, 2013) è oggi cruciale nel campo della formazione: dare/prendere voce è indispensabile per costruire una postura adulta nei contesti di formazione, di lavoro e di vita. Una questione aperta, in un mondo dove le ineguaglianze, unite a un’idea distorta di lifelong learning, portano a silenziare le persone, le storie, i desideri, i significati (Formenti & Castiglioni, 2014).

I diversi livelli micro, meso e macro (Bohlinger et al., 2015), dunque, identificano dimensioni sistemiche dello stesso fenomeno e ne mettono in luce la complessità. Il micro ci porta in una dimensione soggettiva e psico-pedagogica, di costruzione identitaria, cognitiva ed emozionale, auto e mito-biografica, di elaborazione di significati in buona parte inconsci, incorporati, legati a bisogni di comprensione, efficacia e autoefficacia, riconoscimento, senso, che sono propri di ogni individuo. Riconoscere la rilevanza di questo livello significa dare voce ai soggetti dell’alternanza, che non sono solo gli studenti: insegnanti, tutor aziendali, imprenditori, lavoratori, genitori sono fortemente implicati nei processi di costruzione del senso e significato delle esperienze.

Il confronto tra le diverse voci dà vita al livello meso, la dimensione più immediatamente pedagogica, che si gioca nelle relazioni e interazioni tra parti del sistema. La nostra tesi è che connettere mondi sia sempre una sfida; il contatto tra culture, con i loro linguaggi, pratiche e valori, espliciti e impliciti, deve trovare terreni di dialogo perché sia possibile parlarsi e comprendersi senza perdere la propria identità. Il contatto tra culture (Bateson, 1935/1972; Sclavi, 2003) è sempre un evento potenzialmente conflittuale, che mette alla prova le relazioni e genera emozioni. Ad esempio, uno studente inserito in azienda che non riceve istruzioni precise su quello che dovrebbe fare, ma solo una generica definizione del prodotto finale atteso, potrebbe reagire in modi diversi: con il piacere di trovare le sue soluzioni e modalità, ma anche con imbarazzo, paura, ansia, perfino rabbia, e dunque chiusura e rifiuto. Se Luca (vedi sopra) fosse il suo insegnante, potrebbe ritenere illegittimo il comportamento del tutor aziendale che “lo ha abbandonato a sé stesso” e inconsapevolmente alimentare la perdita di fiducia e le accuse reciproche: il “meso” interagisce con il “micro”. Solo il dialogo può aiutare a dipanare queste situazioni, non infrequenti.

Nella cultura di senso comune vige una separazione netta tra relazione e contenuto, quindi le sfide poste dall’incontro tra culture vengono tipicamente lette come “problemi” (attribuiti all’altro e alla sua cultura di appartenenza, poiché raramente mettiamo in discussione le nostre premesse culturali, per noi scontate); l’imbarazzo e le emozioni negative, indicatori emozionali di uno scontro tra le cornici, generano apprendimento se sappiamo mettere in atto l’arte di ascoltare, ovvero: ascolto attivo, autoconsapevolezza emozionale, gestione creativa dei conflitti (Sclavi, 2003). Leggere l’alternanza come un caso specifico di contatto tra culture, che invita dunque a un dialogo sulle premesse, significa ridurre i rischi della schismogenesi, ovvero la produzione di solchi relazionali sempre più profondi. Nel caso dell’alternanza scuola-lavoro, è il nome stesso a suggerire quale sia l’esito desiderato di questo contatto tra due mondi: non la loro fusione, non la dominanza dell’uno sull’altro, ma l’alternanza, ovvero “la persistenza di ambedue […] in equilibrio dinamico all’interno di una più vasta comunità” (Bateson, 1935/1972, p. 205). Questa interpretazione lavora, in termini formativi, sul disequilibrio e sulla tensione, dunque sulle possibili trasformazioni che nascono dalla differenza quando diventa riflessività.

Dalle ricerche sui sistemi interattivi, sappiamo che quando individui o gruppi diversi interagiscono, emergono dalle loro azioni interdipendenti diversi tipi di processi di differenziazione – simmetrica, complementare e reciproca –, ovvero configurazioni di comportamenti analoghi (ad esempio, nelle dinamiche di fronteggiamento competitivo, di emulazione), oppure di segno opposto (ma interdipendenti, come avviene nella leadership, nella cura, nell’aiuto, nelle dinamiche di potere) e collaborativi (sinergici, centrati sulla capacità di essere uguali e diversi, di cedere quote di autonomia e potere all’altro, di prendersi cura della relazione). Rileggendo Bateson in chiave pedagogica, una rassegna dei tipi di comportamento, ovvero delle relazioni che caratterizzano l’esperienza-ponte dell’alternanza, ha un interesse formativo e orientativo molto importante, che prescinde e va oltre l’acquisizione di competenze lavorative o abilità specifiche. È infatti il rapporto con il contesto di lavoro, come esperienza esistenziale, complessiva, globale, a essere chiamato in causa.

In effetti, una delle possibili ricadute, forse la più interessante, sta nell’offrire ai ragazzi una possibilità di riflessione formativa che li porti a mettere a fuoco i propri posizionamenti cognitivi, relazionali, valoriali e affettivi rispetto al nuovo contesto che stanno imparando a conoscere e agli altri attori implicati nel processo (insegnanti, tutor, colleghi studenti e lavoratori). Imparare a imparare, a scegliere e decidere, a collaborare, a riflettere, auto-osservandosi in un contesto inedito guidato da premesse ignote, significa “imparare a pensare” e “aprire la mente”, per posizionarsi e ri-posizionarsi rispetto al nuovo, una delle più importanti competenze di auto-orientamento nella società attuale.

Logiche separatiste o connettiviste?

Se riconosciamo che ogni cultura ha la sua logica, capiremo senza difficoltà il potenziale intrinsecamente trasformativo insito nel portare una persona o un gruppo di persone dall’una all’altra. Il dialogo tra culture genera conoscenza, in quanto le strutture di pensiero dei soggetti, uniformate dall’appartenenza a un comune contesto, appaiono logiche solo finché si rimane nel contesto originario; quando si esce dalla scuola, improvvisamente, quello che era “logico” non lo è più. Queste logiche, accordate in modo da garantire soddisfazione ai membri di una cultura, assolvono a funzioni emotive (si pensi al “bravo studente” che si sente soddisfatto perché riesce a portare a termine i compiti assegnati, ma va in crisi quando deve misurarsi con compiti nuovi e meno definiti), oltre che materiali (economiche, temporali, spaziali) e sociali. L’interrelazione di queste diverse funzioni è ciò che mantiene l’identità di un sistema, che garantisce la continuità così come le trasformazioni.

In fondo, il dualismo non esiste: la scuola è anche mondo di vita, di emozioni, di corpi in relazione, di processi psicosociali, così come il lavoro è luogo di apprendimento sia formale che informale. Li abbiamo chiamati “mondi” poiché sono sistemi complessi, con una loro coerenza e unità. La loro distinzione è antica ed è diventata solco profondo nella scuola italiana, dove un approccio prevalentemente intellettuale ha contrapposto teoria e pratica, sottomettendo la seconda alla prima e svalutando – almeno fino a oggi – i percorsi più professionalizzanti. L’alternanza sembra ribaltare questa logica, e non a caso è diventata un problema nel momento in cui “ha colpito” i licei, luoghi per eccellenza del sapere teorico e proposizionale, dello studio analitico e approfondito del testo, contrapposto a un apprendimento incorporato, pratico, utile – da riservare ai “meno competenti”.

Le storie e riflessioni che abbiamo raccolto mostrano tutte le contraddizioni e potenzialità di un dispositivo nuovo e ad alto rischio, che sollecita la pedagogia a costruire urgentemente proposte formative adeguate alla sua complessità.


Note


[1] Il gruppo FROGS - Formazione, Ricerca, Orientamento nei Gruppi e nei Sistemi, attivo dal 2013 presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, unisce ricercatori, pedagogisti, insegnanti e operatori culturali nel generare buone teorie e pratiche nel campo dell’orientamento e del life design.

[2] Le storie riportate nel paragrafo sono state raccolte durante le attività formative di “Lab’O Alternanza”, progetto curato dal servizio di orientamento formativo LAB’O (Laboratorio Ateneo Bicocca per l’Orientamento) dell’Università di Milano Bicocca, in collaborazione con il gruppo di ricerca FROGS. Il progetto, iniziato nel maggio 2016, prevede incontri di gruppo in entrata e in uscita con tutti gli studenti e studentesse in alternanza presso l’università, provenienti dalle scuole superiori milanesi (classi III e IV), inseriti in diversi tipi di unità operative: uffici amministrativi, biblioteca, laboratori, ufficio tecnico, gruppi di ricerca. Nell’anno scolastico 2015-16 hanno partecipato agli incontri 74 studenti, corrispondenti a circa un terzo della popolazione inserita; nel 2017 sono previsti circa 215 partecipanti, ovvero la totalità della popolazione inserita.

[3] Coordinato dalla prof.ssa Laura Formenti, coinvolge diversi ricercatori e professionisti su progetti di ricerca e intervento nel campo dell’orientamento. Tra questi: Alessia Vitale (assegnista progetto Life(St)Art), Silvia Luraschi (coordinamento servizio LAB’O), Valentina Calciano (responsabile coordinamento tecnico servizio LAB’O).

[4] I ragazzi e le ragazze si attribuiscono un nome d’arte, per firmare le loro opere e racconti. Questo ci consente di mantenere l’anonimato in sede di documentazione e di pubblicazione.

[5] Nome di fantasia a tutela della privacy.

[6] Per semplicità parliamo di due culture, due mondi da connettere: quello scolastico e quello lavorativo, ma si tratta di un incontro-scontro tra molteplici mondi: sia la scuola che il mondo del lavoro non sono certo monolitici; a essi si aggiungono le culture e subculture territoriali, mediatiche, familiari, professionali, che intersecano le esperienze locali di alternanza in modi nuovi, molteplici e imprevisti.


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