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La Memoria scolastica nei racconti del maestro di Regalpetra |
di Caterina Sindoni |
DOI: 10.12897/01.00129 Il noioso e monotono obbligo di annotare mensilmente nel registro di classe, per l’arco di tempo di otto anni (dal 1949 al 1957), le cronache di vita della scuola e le osservazioni sugli alunni si trasforma, per il giovanissimo Leonardo Sciascia, insegnante in servizio presso la scuola elementare di Racalmuto, un piccolo centro dell’entroterra siciliano, nella straordinaria occasione per narrare la propria esperienza di maestro ad un più vasto pubblico. Raccolte dapprima nella rivista Nuovi Argomenti del 1955 con il titolo di Cronache scolastiche e poi ulteriormente rielaborate e pubblicate da Laterza nel 1956 nel fortunato romanzo Le Parrocchie di Regalpetra, le memorie scolastiche dello Sciascia, uno degli scrittori italiani più grandi del Novecento, costituiscono fonti d’impareggiabile valore per gli storici della scuola e dell’educazione. Le annotazione e le conseguenti memorie del noto scrittore, infatti, oltre a fornire preziosissime indicazioni sulla scuola e sulla società del Mezzogiorno d’Italia nel secondo dopoguerra, costituiscono, nel loro insieme, un affascinante viaggio nella memoria in cui, ad ogni sosta, Sciascia, guarda indietro, ripensa la sua esperienza di maestro ed affronta, con la grande perizia che caratterizza il suo stile narrativo, temi e problemi che, benché riferiti ed un minuscolo e sicilianissimo microcosmo, rappresentano un racconto-denuncia, di grandissimo valore civile, sulla situazione nella quale versa il Mezzogiorno nella seconda metà del XX secolo. Il contributo, attraverso un attento esame delle annotazioni apposte dallo Sciascia sui registri scolastici della scuola di Racalmuto ed un’accurata analisi dei testi conseguentemente prodotti, Cronache scolastiche e Le Parrocchie di Regalpetra, intende dimostrare, in primo luogo, la validità della memoria scolastica quale fonte di assoluto interesse per le ricerche storico-scolastiche e/o storico-educative e, secondariamente, indagare il raffinato percorso attraverso il quale il maestro-scrittore, riuscì ad innalzare, sottoponendoli ad un pubblico sempre più vasto e così svincolandoli dal giudizio di direttori ed ispettori, i piccoli e sbiaditi fatti di una scuola del sud a grandi e gravi problemi sociali.
As a teacher in the primary school of Sicilian hinterland small village Racalmuto, a young Leonardo Sciascia manages to turn the tedious task of writing down chronicles of school life and observations on the students on the school register for a period of eight years (from 1949 to 1957) into the extraordinary experience to tell his own history as a teacher to a wider audience. First collected in a periodical called Nuovi Argomenti 1955 with the title of Cronache scolastiche and later reworked and published as successful novel Le Parrocchie di Regalpetra published by Laterza in 1956, the school memoirs written by Sciascia, one of the most prominent Italian writers of the XXth century, represent research sources of the utmost importance for history of education historians. In fact, besides offering precious information on school and society in Southern Italy after the Second World War, the popular writer’s annotations later recollected in his memoirs stand, as a whole, for a fascinating journey through memory lane. At each stop of this journey, Sciascia pauses and looks back, recalling his experience as a teacher; furthermore, with the great expertise characterizing his narrative art, he tackles topics and issues that, rather than being connected only to a quite small and quite Sicilian microcosm, represent a report-exposure of high civil importance of the condition of Southern Italy during the second half of the XXth century. Firstly, by means of thoroughly examining Leonardo Sciascia’s annotations on the school registers of Racalmuto as well as his works published at a later stage (Cronache scolastiche and Le Parrocchie di Regalpetra), the present contribution aims at proving the worth of scholastic memoirs as a source of interest for historical-educational research. Secondly, the paper aims at examining the bright professional journey through which the teacher-writer was able to heighten the small and dull facts concerning a Southern school to grave and important social issues, by relieving them from school directors and school inspectors’ judgment and thus presenting them to an increasingly wider audience.
1. Introduzione
Sempre maggiore è l’attenzione che gli storici dell’educazione e delle istituzioni scolastiche rivolgono alle storie di vita ed alle memorie, fonti di indiscusso valore per una ricostruzione attenta alla quotidianità, concetto più che necessario per una piena comprensione del pluriverso educativo. Il concetto di quotidianità, infatti, come è stato messo in evidenza, contribuisce “alla costruzione di un passato che viene percepito come collettivo, dal momento che non viene trascurato nessun componente della collettività […], nessuna epoca storica e nessun aspetto” consentendo, pertanto, “di offrire a tutti i soggetti sociali delle genealogie, delle tradizioni, un senso di appartenenza” (Giallongo, 2004, p. 61). Tali potenzialità sono state individuate da Dominique Julia (1996; 1998) che, in alcuni saggi pubblicati nella rivista Annali di Storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche ed in un contributo pubblicato all’interno del volume curato da Egle Becchi e da Quinto Antonelli (1995) dal titolo Scritture bambine, invitava gli storici, sul finire degli anni Novanta, ad arricchire le proprie ricerche riscoprendo fonti fino a quel momento poco o per nulla utilizzate in ambito storico-pedagogico come, ad esempio, i quaderni scolastici, la corrispondenza familiare, i diari, le autobiografie, le scritture infantili, i trattati pedagogici e le memorie scolastiche (Ferrari, 2005). Su queste tematiche si è soffermato anche Antonio Viñao (2005) il quale in un bel lavoro dal titolo La memoria escolar: restos y huellas, recuerdos y olvidos individua i motivi che giustificano una sempre più crescente attenzione nei confronti della memoria scolastica. Tra questi lo studioso spagnolo annovera: a. la maggiore consapevolezza che la memoria possa essere manipolata e che il passato possa essere utilizzato come un’arma che, ideologicamente connotata, si propone di spiegare il presente e di prefigurare il futuro; b. il ricorso alla memoria ed al passato come strumenti per ricreare identità collettive ed individuali e tradizioni locali e regionali in un mondo sempre più omogeneizzato, standardizzato e globalizzato; c. l’esigenza di salvaguardare la memoria di fronte alla possibilità di una sua manipolazione ed agli intenti di una sua appropriazione; d. il dibattito, trasferito sia al campo storiografico sia a quello delle scienze sociali ed umane, relativo all’interazione tra memorie individuali e memorie collettive; e. il ricorso sempre più frequente, da parte degli storici, alle storie di vita, alla storia orale, alle microanalisi, agli egodocumenti ed alle scritture private, come anche alle immagini intese quali impronte e frammenti del passato, e dunque, più in generale, alla memoria ed all’oblio; f. l’interesse, sempre da parte degli storici, per gli oggetti materiali intesi quali oggetti sociali che diventano oggetti di memoria (Viñao, 2005). Quest’attenzione verso la memoria scolastica, che non attiene all’esclusiva dimensione del passato poiché ad esso ricorre anche per meglio comprendere le dinamiche del presente, si discosta fortemente da quell’interesse, ormai per certi versi sopito, verso le grandi narrazioni e cioè verso quelle “visioni del mondo, di ideologie, di corpus di idee, valori, sentimenti, atteggiamenti [che] davano sicurezza” (Albarea, 2009). Si tratta, al contrario, di un’attenzione rivolta alla quotidianità e, utilizzando le suggestive parole di Jacques Maritain (1983), “al funzionamento ordinario e quotidiano dell’intelligenza, quando l’intelligenza è veramente in attività̀, […] al modo in cui le idee sorgono nello spirito […], al modo in cui prendiamo le nostre libere decisioni, quando sono veramente libere” e, più in generale, al “mondo di attività profonda e inconsapevole per l’intelligenza e la volontà” e cioè alla “vita preconscia, immensa e originale” (p. 78). La dimensione nella quale va ad esplicarsi la memoria scolastica – ancora oggi al centro del dibattito storico-pedagogico, come testimonia la recentissima organizzazione da parte dell’Università di Siviglia in collaborazione con numerosi centri di ricerca[1] di un Simposio internazionale dal titolo La memoria escolar. Nuovas tendencias en la investigación histórico-educativa: perspectivas heurísticas y cuestiones metodológicas (22-23 settembre 2015) – benché sia non poco impervia, è comunque preziosissima giacché è intimamente connessa con il tessuto vivente delle comunità; comunità che, come è ovvio, comprendono anche quelle scolastiche ed educative. Quali sono le forme che può assumere la memoria scolastica? Un quadro abbastanza articolato delle molteplici configurazioni di questa fonte, “género textual específico a medio camino entre lo público y lo privado, con sus motivaciones y sus proprias normas de composición y presentación”, ci è offerto ancora una volta da Antonio Viñao che distingue ben undici configurazioni e cioè: 1. le autobiografie e le memorie in senso stretto; 2. le interviste autobiografiche; 3. i diari (distinti in diari personali, diari di classe e di diari redatti per la preparazione delle lezioni); 4. le agende; 5. la corrispondenza; 6. i curriculum vitae; 7. i testi autobiografici orali o scritti; 8. gli scritti pubblicati in riviste professionali volti a descrivere le esperienze didattiche; 9. gli scritti sulle questioni educative dai quali è possibile dedurre aspetti professionali autobiografici; 10. gli scritti relativi a specifiche attività didattiche e/o a compiti professionali; 11. gli scritti autobiografici o scritti personali ordinati secondo un certo ordine dai quali si evinca l’intenzione di avviare “un proyecto autobiográfico que narre la propia vida” (Viñao, 2005, pp. 27-28). Questa molteplicità di fonti, prodotte da maestri e da maestre, da professori o da educatori o educatrici, consente di ricostruire, in ragione della specifica forma assunta, una varietà di aspetti che spaziano dal percorso professionale, alla vita quotidiana consumata all’interno (ma anche all’esterno) dei luoghi di istruzione e di educazione, alla vita in-relazione con i protagonisti (e non) della scuola o dell’istituto educativo fino ad arrivare anche alla vita privata nella quale si muovono, non di rado, anche attori imprevisti. Gli intenti dai quali scaturisce la memoria scolastica sono assai variegati; tuttavia è interessante notare come buona parte di questi prodotti assuma di frequente tutte le caratteristiche del racconto autobiografico in cui il maestro, riflettendo a posteriori sull’esperienza dell’insegnamento, diventa inaspettatamente una sorta di testimone privilegiato non tanto e soltanto della propria vita ma anche della vita di un’istituzione ed insieme ad essa, delle molte altre vite che attorno a tale istituzione ruotano. Va poi rilevato che non di rado, come nel caso del maestro di Regalpetra, cui si riferisce questo contributo, la scrittura discenda da uno specifico disagio o da una difficoltà che ingenerano un forte desiderio di scrivere o di denunciare. Disagio o difficoltà dovuti, ad esempio, ad un contesto degradato; allo iato tra la norma ministeriale che prescrive uno specifico programma scolastico e la specificità di un territorio e la condizione sociale ed economica degli scolari; alle differenze culturali tra un maestro, portatore di una cultura superiore, e scolari che vivono (o sopravvivono) in un ambiente deprivato; alle profonde differenze riscontrate tra ciò che al maestro o alla maestra si prospetta in ambito pedagogico durante il periodo di formazione e la concreta e complessa trasposizione di tali criteri nella didattica. Queste prove di fuoco, cui si è voluto dare solo un breve accenno, che per un certo verso ci riportano al passato ma che tratteggiano anche, per un altro verso, non poche realtà del presente, accendono la voglia di scrivere, di raccontare (a sé ma anche agli altri) la propria storia, di compilare diari, di elaborare forme di denuncia per iniziare a riflettere, seppure spesso senza esserne pienamente consapevoli, sui “plurimi sensi, sulle plurime spiegazioni possibili o impossibili soprattutto, da assegnare non più alla propria vita ma all’esistere in quanto tale” (Demetrio, 1996, p. 10). Da questo punto di vista, il caso che qui si propone contiene in sé tutti gli elementi caratteristici di una storia di vita le cui tracce, che si dispiegano in una molteplicità di fonti tra loro molto diverse, per forma e per intenti, sono di grande interesse sia per disvelare i complessi meccanismi sottostanti la pratica narrativa intesa quale occasione per dare forma e significato all’esistenza sia per esplorare, nel loro concreto accadimento, i fatti della scuola e del mondo in cui essa è immersa; un mondo, quest’ultimo, da cui non si può prescindere se si desidera cogliere, nella sua vera essenza, non tanto il passato ma, soprattutto, il presente. Il caso proposto in questo contributo si riferisce al percorso umano e professionale del giovanissimo Leonardo Sciascia, autore noto al grande pubblico esclusivamente per la sua attività letteraria e poco o nulla per la sua attività magistrale svolta tra il 1949 ed il 1957 presso la scuola elementare di un piccolo centro dell’entroterra siciliano. Il noioso e monotono obbligo di annotare mensilmente nel registro di classe, per l’arco di tempo di otto anni, le Cronache di vita della scuola e le osservazioni sugli alunni si trasforma nella straordinaria occasione per narrare la propria esperienza di maestro ad un più vasto pubblico. Raccolte dapprima nella rivista Nuovi Argomenti con il titolo di Cronache scolastiche del 1955 e poi ulteriormente rielaborate e pubblicate per i tipi di Laterza nel 1956 nel fortunato romanzo Le Parrocchie di Regalpetra, le memorie scolastiche dello Sciascia costituiscono fonti d’impareggiabile valore. Le annotazioni sui registri di classe nonché le conseguenti opere letterarie, infatti, oltre a fornire preziosissime indicazioni sulla scuola e sulla società del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra, costituiscono, nel loro insieme, un affascinante viaggio nella memoria nel quale, ad ogni sosta, Sciascia guarda indietro e ripensa la sua esperienza di maestro ed affronta, con la grande perizia che caratterizza il suo efficacissimo stile narrativo, temi e problemi che, benché riferiti ed un circoscritto sicilianissimo microcosmo, si configurano come un racconto-denuncia di grandissimo valore civile sulla situazione in cui versa il sud d’Italia nella seconda metà del XX secolo. Si tratta di un percorso non poco tormentato sul quale Sciascia, il maestro della fantomatica Regalpetra, denominazione prescelta in omaggio a Nino Savarese autore del romanzo i Fatti di Petra, tornerà a riflettere nel 1983, dopo oltre trent’anni, in occasione di un incontro con gli insegnanti della scuola elementare Generale Macaluso di Racalmuto. In questo contributo si intende ripercorrere questo singolarissimo cammino attraverso l’esame delle annotazioni riportate nei registri scolastici dallo scrittore, oggi conservate presso la Fondazione Sciascia di Racalmuto, e delle opere letterarie (Cronache scolastiche e Le Parrocchie di Regalpetra) frutto, almeno in parte, della sua esperienza scolastica.
2. Scuola e fanciulli nei diari di un maestro
Dopo essere stato studente della Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi di Messina (Moscheo, 2002), Sciascia inizia ad insegnare come maestro elementare, tra il 1949 ed il 1957, nella scuola del suo paese, Racalmuto, senza avere, come egli stesso sostiene, “una particolare passione per l’insegnamento”. Il maestro Sciascia è tenuto ad annotare mensilmente nel registro di classe le Cronache di vita della scuola e osservazioni sugli alunni, obbligo dal quale nasce, come avrà modo di chiarire più in avanti, quello spunto che gli consente di scrivere, tra il 1954 ed il 1955, un primo ed apprezzatissimo resoconto sulla sua esperienza di maestro pubblicato nel 1955 nel numero 12 della rivista Nuovi Argomenti con il titolo Cronache scolastiche. È questo il nucleo principale del fortunatissimo romanzo Le Parrocchie di Regalpetra che, pubblicato nel 1956 da Laterza, conferisce allo Sciascia una grande notorietà. Le relazioni mensili, che Sciascia stila ininterrottamente per sette anni, dall’anno scolastico 1949/50 sino al 1957, oltre a rappresentare quel particolare obbligo cui il maestro deve adempiere, sono ricche di indicazioni che illustrano, accanto all’andamento della classe, la penosa situazione in cui si trova la scuola nel secondo dopoguerra subito dopo la dittatura fascista. Le Cronache di vita della scuola e osservazioni sugli alunni servono allo Sciascia per mettere in evidenzia, sin dagli esordi della sua attività magistrale, poco o nulla preoccupandosi delle regole cui è soggetto un documento di carattere burocratico, lo stato di degrado e la grave condizione di miseria che accomuna la maggior parte dei destini dei suoi scolari. La Racalmuto degli anni Cinquanta, piccolo centro della provincia di Girgenti, è oppressa dalla fame e della miseria; è un paese in cui l’unica opzione al lavoro di zolfataro, di salinaro o di contadino è rappresentata dall’emigrazione; un paese dove non si conosce il significato della parola sviluppo ed in cui “ci sono bambini che vanno a servizio, vecchi che muoiono di fame, persone che lasciano come unico segno del loro passaggio sulla terra un’affossatura nella poltrona del circolo” (Collura, 2000, p. 85). Nell’intraprendere l’attività di insegnante, Sciascia constata da subito, con estrema amarezza, il divario che esiste tra ciò che gli è stato trasmesso sul mestiere del maestro e l’onere di colui che ha la piena consapevolezza di iniziare ad insegnare in una società assai problematica quale è quella di Racalmuto; perplessità che trapelano in maniera palese dalle sue amarissime annotazioni nel Registro di classe dell’ottobre del 1949 dove scrive: “non è senza timore che inizio la mia opera d’insegnante. La classe affidatami è numerosa, il che contribuisce ad accrescere il mio disagio. A questo primo brusco contatto, l’opera educativa a cui mi ritenevo, per esperienza libresca, preparato e che perciò vagheggiavo perfetta, mi si presenta al quanto scoraggiante e difficoltosa. Difficoltà d’ordine umano, non ancora di ordine tecnico. Il materiale umano a disposizione della mia opera non è assolutamente ideale: ragazzi che vengono fuori da un ambiente inconcepibile, tagliato fuori da ogni sviluppo, dove la coscienza è soltanto superstizioni o stramberia, lo studio ritenuto pressoché inutile non fosse per quelle quattro parole da dover inviare a casa quando si è soldati o per quella licenza necessaria per arruolarsi” (Registro di classe, anno scolastico 1949/50, ott. 1949). La miseria è il fattore che, più di altri, non consente alla scuola di essere efficace e ciò malgrado il rinnovato interesse verso l’istruzione pubblica da parte del governo nel secondo dopoguerra[2]; la scuola, infatti, come Sciascia non manca di sottolineare in una seconda annotazione, è intaccata nelle sue fondamenta: “educare, ed istruire – scrive il Nostro – è indubbiamente compito più facile in una società non così economicamente minorata” (Cronache a.s. 1949/50, nov. 1949) ed ancora, “educare è una cosa impossibile quando l’ambiente resiste, quando quei valori che l’opera educativa illumina non esistono nell’ambiente” (Registro di classe, anno scolastico 1950/51, ott. 1951). Vi è, insomma, un grave divario tra l’immagine ideale della scuola italiana, così come è disegnata dalle politiche di ristrutturazione post-bellica e post-fascista e la complessa realtà siciliana nella quale, come registra il Nostro, occorreranno “molti anni ancora perché la scuola veramente sia scuola” (Registro di classe, anno scolastico 1949/50, ott. 1949). Le descrizioni che ci fornisce Sciascia sui suoi alunni non lasciano spazio all’immaginazione; egli ci parla, infatti, di “bambini svogliati”, che “studiano a stento”, “disattenti” e con un basso profitto che solo di rado arriva alla sufficienza. Così annota nel registro scolastico nel mese di aprile del 1952: “ho dato le votazioni del primo trimestre attribuendo dei quattro a coloro che ritengo si salveranno difficilmente. Mi sono fermato al quattro attribuendo ai voti la pratica funzionalità di designare l’insufficienza o la sufficienza; se ai voti dovessi dare un valore di precisa classificazione, per qualcuno bisognerebbe sconfinare nei numeri negativi” (Registro di classe, anno scolastico 1951/52, apr. 1952). Sono i bisogni primari ad avere nella vita di ciascuno di questi ragazzi la priorità assoluta e solo dopo il soddisfacimento di questi, la scuola, seppure “a tempo perso”, può trovare uno spazio ed un significato, seppur minimo, nelle loro giornate. Al centro degli interessi degli scolari, pertanto, non ritroviamo gli insegnamenti, percepiti come inutili e totalmente disgiunti dalla quotidianità, ma la refezione scolastica e tutte le attività di tipo assistenziale, queste ultime, tuttavia, ancora ben lontane dall’essere un istituto concretamente rivolto a favore della comunità scolastica e delle fasce più deboli. Cade la neve su Racalmuto nel dicembre del 1949 e Sciascia scrive: “c’è stata la distribuzione del latte caldo ogni mattina: una specie di brodaglia fatta con farina lattea e zucchero. Forse la polvere era già avariata, se in un giorno si sono avuti, un po’ in tutte le classi, casi di intossicazioni. L’assistenza sociale riveste ancora caratteri di elemosina. Si dà ai poveri quel che resta, le briciole; o quel che è andato a male” (Registro di classe, anno scolastico 1955/56, feb. 1956). Lo stato di povertà e di cattiva assistenza si evince anche dalle annotazioni del maestro racalmutese sulle difficoltà incontrate dagli alunni nel rifornimento dei supporti scolastici di base. Scrive a questo proposito nel dicembre del 1955: “ancora continua il disagio, mio e degli alunni, per il sussidiario di cui dieci alunni sono sprovvisti; assolutamente mi dicono di non essere in condizioni di acquistarlo, costa 950 lire, vale a dire due giornate di lavoro di un operaio padre di famiglia. Continuo a dettare le lezioni”. (Registro di classe, anno scolastico 1955/56, dic. 1955). L’occupazione prevalente del capofamiglia la troviamo elencata nelle prime pagine del registro di classe e si tratta quasi esclusivamente di mestieri umili e poco redditizi come quello dello zolfataro, del contadino, del carrettiere, del salinaro, del falegname, del venditore ambulante, del muratore e del calzolaio; lavori dai quali non sempre si ricava per le proprie famiglie lo stretto indispensabile per il fabbisogno alimentare. Questi capifamiglia sono descritti dall’acuta penna del maestro come uomini del tutto disinteressati alla scuola ed anzi, ancor peggio, fortemente ostili allo studio dato che lo studio allontana i ragazzi dal lavoro; ma sono padri di famiglia che, in qualche misura, Sciascia giustifica, consapevole che – come sottolinea in un’ulteriore annotazione che riporta a problemi di stampo squisitamente ottocentesco – “quando c’è, in famiglia, il problema del pane, è ovvio che non esista il problema della scuola” (Registro di classe, anno scolastico 1953/54, nov. 1953). Le famiglie, insomma, sono, secondo il Nostro, imprigionate nel “profondo del buio pozzo della miseria” ed i più piccoli altro non possono che “assorbire inermi le brutture dell’indigenza e dell’ignoranza”. Matteo Collura, cui si deve la biografia di Leonardo Sciascia, nonché l’elaborazione di numerosi lavori tutti volti a ricostruire la storia dello scrittore, racconta un episodio estremamente eloquente ed emblematico legato agli anni in cui si consuma l’esperienza magistrale del Nostro: “in una paginetta del suo diario, uno scolaretto di Sciascia scrive come ha trascorso […] la festa più bella dell’anno: ‘io il giorno di Natale ho giuocato con i miei cugini e i miei compagni. Avevo vinto duecento lire e quando sono ritornato casa mio padre me le ha prese e se ne è andato a divertirsi lui […]’. È questo un fatto in cui la miseria appare in tutta la sua essenza di cieca e maligna bestialità. Nell’episodio sono presenti, conclude il Collura, tutti gli elementi che fanno la tragedia della nostra vita” (Collura, 2000, p. 132).
3. Un maestro in viaggio tra Racalmuto e Regalpetra
Alla compilazione del resoconto scolastico mensile succede la stesura, nel 1954, delle Cronache scolastiche pubblicate nel 1955 nella rivista Nuovi Argomenti, il prius logico e cronologico di uno dei più famosi romanzi di Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra. Scrive lo Sciascia (2000) nella prefazione realizzata in occasione della ristampa nella collana universale Laterza del suo romanzo: “Nel 1954, sul finire dell’anno scolastico, mentre compilavo quell’atto di ufficio che è nel registro di classe, la cronaca […] mi venne l’idea di scriver una più vera cronaca dell’anno di scuola che stava per finire. E la scrissi in pochi giorni, e qualche pagine a scuola, mentre i ragazzi disegnavano risolvevano qualche esercizio aritmetica” (p. 3). Il maestro, seduto alla sua cattedra, sente la necessità di avviare il suo racconto senza alcun vincolo, senza la preoccupazione di doversi sottoporre al giudizio di un superiore, lasciandosi andare finalmente a tutte quelle divagazioni per le quali non esiste spazio in un freddo documento ufficiale e burocratico. Lo scrittore ha adesso voglia di urlare la realtà dei fatti vissuti e di denunziare, attraverso un’implacabile penna, le ingiustizie ed i disagi subiti dai bambini di Racalmuto. Ancora una volta è la miseria la prima questione ad essere affrontata con toni assai severi nelle Parrocchie di Regalpetra; la miseria che colpisce soprattutto quei poveri ragazzi “che al mattino si lavano come i gatti […]; prendono poi il pezzo di pane con la sarda salata schiacciata dentro, i libri che son rimasti legati con lo spago […]; portano vecchie scarpe militari aperte nella punta come bocche sdentate, scarpe di tela e gomma o sandali di legno con striscette di cuoio. D’inverno i piedi stanno sempre a mollo, il fango li intosta, la scarpa pesa nel passo come piombo. E nel freddo portano magliette sbrindellate, calzoncini di tela e, i più fortunati, pastrani cavati alla meglio da coperte militari. La testa è difesa da una chioma che pare un nido di cornacchie (Sciascia, 2000, p. 99). Non siamo più a Racalmuto. La realtà adesso si tramuta in finzione e la finzione è ancora più amara e vibrante. Eccoli i ragazzi di Regalpetra; tutti così simili a quelli di Racalmuto. Sono ragazzi che vivono alla giornata, perché è così che si vive a Regalpetra, “il paese del sale”, dove la campagna “è tarlata di gallerie che inseguono il sale, il sale si ammucchia candido e splendente alla stazione; sale, nebbia e miseria; il sale sulla piaga, rossa ulcera di miseria” (Sciascia, 2000, p. 99). Nelle pagine de’ Le Parrocchie non mancano gli episodi assai coloriti sull’inquietante problema della fame. Si legge, ad esempio, la storia raccontata da un alunno al maestro circa il fratello allupato di fame: “La sua scodella di minestra non gli basta, la finisce in un momento; e subito si avventa […] ad aiutare gli altri; sicché i più piccoli ne fanno le spese, tra le lacrime vedono la minestra sparire. E allora le donne di casa hanno trovato un rimedio, mettono nella scodella dell’affamato una manciata di bottoni, e quasi ad ogni cucchiaiata quello si trova in bocca un bottone, perde tempo a sputarlo. È l’ultimo a finire ora. Ad ogni bottone che sputa guarda tutti in faccia; ma a nessuno scappa da ridere, è una cosa molto seria poter finire in pace la propria minestra” (Sciascia, 2000, p. 113). Lo scenario del racconto è sempre lo stesso; la miseria nei suoi aspetti di povertà materiale, di fame, del lavoro infantile; miseria che si presenta come un intreccio complesso di culture e di modi di vita oggetto anche, nel 1953, di un’apposita inchiesta parlamentare[3]. La disperata situazione che circonda Sciascia, fatta di bambini poveri, assillati dalla fame, dalla malaria, dalla difterite, e da decine di altre malattie infettive, in un paese come Racalmuto, parola che, secondo l’etimologia araba, significa “paese dei morti”, getta nello sconforto lo scrittore il quale, nel registrare “tutto questo senso del nero, del buio, dell’offesa perenne”, così scrive: “io penso – se fossi dentro la cieca miseria, se i miei figli dovessero andare a servizio, se a dieci anni dovessero portare la quartara dell’acqua su per le scale, lavare i pavimenti, pulire le stalle; se dovessi vederli gracili e tristi, già pieni di rancore; e i miei figli stanno invece a leggere il giornalino, le favole, hanno i giocattoli meccanici, fanno il bagno, mangiano quando vogliono, hanno il latte, il burro, la marmellata; parlano di città che hanno visto, dei giardini nelle città, del mare. Sento in me come un nodo di paura. Tutto mi sembra affidato ad un fragile gioco; qualcuno ha scoperto una carta, ed era per mio padre, per me, la buona; la carta che ci voleva. Tutto affidato alla carta che si scopre” (Sciascia, 2000, p. 112). Sciascia è consapevole della buona sorte che gli ha permesso di essere al di là di quel mondo di disperazione dove ai carusi, ai picconieri ed ai braccianti non è toccata la medesima carta ma solo e sempre “il piccone, la zappa, la notte della zolfara, una pioggia sulla schiena” (Sciascia, 2000, p. 112). Insegnare in queste condizioni è letteralmente impossibile anche in ragione di quella distanza che vi è tra chi ha scoperto la carta buona e chi, invece, subisce inerme la più nera miseria: “io sono lontano da loro, scrive ancora Sciascia, come le cose che insegno, come la lingua che parlano i libri, e mi pagano per insegnare cose che a loro non servono e sento indicibile disagio e pena a stare di fronte a loro col mio decente vestito, la mia carta stampata, le mie armoniose giornate” (Sciascia, 2000, p. 103). Gli scolari di Regalpetra, insomma, come emerge da’ Le Parrocchie sono bambini che non conoscono la dolcezza legata alla fanciullezza; essi sono “nitidamente lontani, con in fondo ad un binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di miseria e rancore, lontani con i loro arruffati pensieri, i piccoli desideri di irraggiungibili cose” (Sciascia, 2000, p. 103). Tutto appare privo di senso a Regalpetra: i bambini, i libri, il maestro, la scuola e, con essi, prima di tutti e più di tutti lo stato. Tra problemi così gravi, appare privo di quei fondamenti che ne giustificano l’esistenza anche l’obbligo scolastico che spesso viene ad essere adempiuto coattivamente poiché non basta come deterrente alle famiglie la cartolina di precettazione. “Il direttore, scrive il maestro racalmutese, trasmette gli elenchi degli inadempienti all’obbligo scolastico al maresciallo dei carabinieri; il maresciallo manda in giro l’appuntato, a minacciare galera e – io vi porto dentro – i padri si rassegnano a mandare a scuola i ragazzi” (Sciascia, 2000, p. 105). Così si compie quest’obbligo; quasi come un’angheria nei confronti della fascia più povera e dunque più debole dei cittadini. Un’angheria che Sciascia (2000) non manca di registrare: “La pubblica istruzione! Obbligatoria e gratuita, fino ai quattordici anni; come se i ragazzi cominciassero a mangiare soltanto dopo, e mangerebbero le pietre dalla fame che hanno, e d’inverno hanno le ossa piene di freddo, i piedi nell’acqua” (p. 105). Ma la miseria non è l’unico problema ad essere rappresentato ne’ Le Parrocchie di Regalpetra; troviamo anche richiami alle forme di assistenza mal gestite da parte della regione come la refezione scolastica ed il patronato che egli considera, così come aveva già messo in risalto in precedenza, mere forme di elemosina. Sulla refezione scolastica, ad esempio, annota: “nella palestra dove servono la refezione c’è un grosso sentore di risciacquatura, carne andata a male e pasta cotta come la colla”; sul patronato scolastico, invece, ricorda l’episodio della distribuzione delle scarpe: “chi ordinò la partita – affari grossi, di gente che sta in città – credeva che le scuole fossero piene di ragazzi con piedini da bambino Gesù, e le scarpe servirono a calzare i fratellini” (2000, p. 98). Anche la distribuzione di libri è problematica; essi vengono assegnati alla “maniera tipica del mezzogiorno” e cioè non in base al reddito più basso ma in base a chi, tra i poveri, è il più bravo ad arrangiarsi: “Il patronato scolastico elargisce ogni anno i libri di testo ai più poveri. Io faccio l’elenco di quelli che mi sembrano i più poveri. Forse sembrano troppi a comitato. Viene allora il direttore, fa uscire i ragazzi dai banchi, li mette in fila. Ad uno ad uno li esamina – il vestito, le scarpe; poi chiede del mestiere del padre, quanti sono in famiglia, se hanno il pezzo di terra, il mulo, l’asino, la mezzadria. Finisce col lasciarli tutti in elenco, sicché l’ultima parola viene a toccare alla guardia municipale che ha il compito di informare il comitato; secondo chi avvinghia la guardia, il ragazzo avrà o non avrà il libro” (Sciascia, 2000, p. 99). Nel 1983, circa trent’anni dopo la pubblicazione de’ Le Parrocchie di Regalpetra, Sciascia incontra i colleghi della scuola elementare di Racalmuto. Il suo intervento, pubblicato nel numero di settembre-ottobre dello stesso anno della rivista “Malgrado tutto”, è estremamente emozionante e carico di significati. Sciascia ora è uno scrittore affermato ed i suoi romanzi gli hanno dato celebrità letti come sono un po’ ovunque in giro per il mondo; Sciascia è, senza alcun dubbio “lo scrittore della Sicilia”, di quella “Sicilia che esiste prima di tutto come costellazione di istituti giuridici, di privilegi, di immunità che, scomparsi ormai da anni, sopravvivono ben radicati nelle concezioni e nel comportamento dei siciliani”; Sciascia è dell’isola l’interprete “più acuto, più sensibile anche più incattivito” (Siciliano, 1999, p. 61). Eppure Sciascia resta, come racconta Enzo Biagi, un uomo semplice, con una vita rispettabile: “sono andato a trovarlo nella casa di campagna, a Racalmuto: un ettaro di terra, che è sempre stato dei suoi. Sciascia ha tirato su i muri nuovi, perché ormai ci vuole l’acqua e la luce, ma il paesaggio è immutato; la trazzera piena di buche, gli ulivi drammatici, il vento che ribalta le erbe secche. Questo è il suo orizzonte: il pastore che gli regala la ricotta, i bottegai, i contadini, un professore che ogni tanto viene a trovarlo e gli porta frutta e vino” (1998, p. 41). Dinnanzi ai maestri, nel 1983, in quella stessa scuola di Racalmuto che molte volte è stata fonte di grave disagio, Sciascia ripercorre i fatti di trent’anni prima; fatti che sono letteralmente affollati di bambini, di genitori e di ispettori scolastici. “Mi ricorderanno – dice agli ex colleghi della scuola Generale Macaluso – non so se come maestro pessimo o maestro buono. I direttori certamente come un pessimo maestro; gli alunni forse no. Comunque io ho fatto quello che ho potuto, quello che potevo fare, perché per tutta la mia vita sono stato preso dal demone dello scrivere e del leggere, per cui la scuola era una cosa – devo confessare – un po’ marginale per me: se non quando riuscivo a portare dentro la scuola qualcosa che mi interessava come lettore e come scrittore” (Picone, 2007, p. 75). Il pensiero va anche alla poca libertà, probabilmente alla stesura di quel resoconto mensile sulla vita scolastica “improntata al tutto va bene”, ai programmi che non lasciavano spazio agli insegnanti, soprattutto per quelle discipline che, in un’Italia che cercava di abbandonare per sempre gli ideali inculcati dalla dittatura fascista, era bene “tenere al guinzaglio”: “Ora, voi che siete ancora in servizio – dice Sciascia rivolgendosi agli insegnanti più giovani – godete di una libertà di cui noi non godevamo; […] non si poteva fare veramente il maestro con libertà […], l’incubo dell’ispezione, del parlare di politica – ma la politica è la vita, se ne doveva parlare anche a scuola – invece no, non se ne doveva parlare” (Picone, 2007, pp. 75-76). Ciononostante la scuola si configura per Leonardo Sciascia come un’esperienza importante che, a dispetto delle molte difficoltà che non lo hanno incentivato ad amarla, lascia nella sua vita un segno forte. “Sono sempre stato un maestro senza eccessiva vocazione – dice il Nostro – in un certo senso un pessimo maestro; però, quando negli ambienti mondani e borghesi dove si usa chiamare lo scrittore maestro, mi chiamano maestro, io accetto quella denominazione soltanto perché sono stato maestro di scuola” (Picone, 2007, p. 75).
4. Conclusioni
La ricchezza apportata alla ricerca storico-pedagogica dalle storie di vita, dell’autobiografia, dai racconti legati alla propria esperienza professionale ma anche da semplici annotazioni in documenti di tipo burocratico appare più che evidente se si considerano le preziose informazioni che si ricavano dalle travagliate elaborazioni culturali di Leonardo Sciascia sull’infanzia, sulla scuola e sulla società siciliana post-bellica. Dall’esame dei suoi racconti emerge un quadro assai drammatico di una microrealtà, quella di Racalmuto, che appare completamente avulsa da ogni genere di sviluppo e lontanissima dalla giustizia di Stato. Lo squallore di questo ambiente invade letteralmente la vita del giovane Sciascia tanto che quel “senso del nero, del buio [e] dell’offesa perenne”, che caratterizza la sua quotidianità dentro e fuori la scuola, ricorre, quasi in maniera ossessiva, in tutti gli scritti legati al mondo scolastico. Un senso del nero che troviamo nelle annotazioni mensili apposte nel registro di classe; nelle Cronache scolastiche, pubblicate quando ancora Sciascia insegna a Racalmuto; ne’ Le Parrocchie di Regalpetra ed, infine, ancora trent’anni dopo, nelle parole pronunciate in occasione dell’incontro con i colleghi della scuola elementare. E ciò probabilmente perché, negli anni in cui è maestro, Sciascia contrae “una specie di ‘nevrosi’ da ragione, di una ragione che cammina sull’orlo della non ragione”; una nevrosi da ragione-valore, di quella ragione che può considerarsi la ragione degli oppressi (Onofri, 1994, p. 39). La scrittura, allora, diventa l’unica possibilità per non soccombere ad una realtà minacciosa, degradata, fragile e priva di senso. Il maestro di Regalpetra, attraverso il ricorso costante alla scrittura, re-incontra in “un affresco di volti e [di] circostanze condivise” (Demetrio, 1996, p. 9) i suoi alunni, i padri di questi “con i loro umili mestieri”, i colleghi “seduti al circolo e preoccupati ora della paga ed ora dello sciopero” ed, infine, re-incontra anche sé stesso “nello sforzo di trarre un senso da tutte le cose disordinate, sconcertanti, contraddittorie che di anno in anno aveva avuto modo di notare” (Barzini, 1999, 10). La scrittura, insomma, si configura come una scrittura liberatoria, una pratica benefica per sviluppare la resilienza, un imprescindibile strumento per risalire “alla radice del […] risentimento, morale e civile” (Onofri, 1994, p. 39).
Note
[1] Mi riferisco al Centro Internacional de la Cultura Escolar (CEINCE), al Centro de Estudios sobre la Memoria Educativa (CEME) istituito nell’Università di Murcia, al Centro di documentazione e ricerca sulla storia del libro scolastico e della letteratura per l’infanzia dell’Università di Macerata ed al Museo Pedagógico presso la Facultad de Ciencias de la Educación dell’Università di Sivilla. [2] Sulla scuola italiana nel dopoguerra si vedano: Chiosso, G. (1985/1986). Cattolici e riforma scolastica. L’Italia nel secondo dopoguerra (1949-1951). Pedagogia e vita, fasc. II, 185-211; Gaudio, A. (1991). La politica scolastica dei cattolici. 1943-1953. Dai programmi all'azione di governo. Brescia: La Scuola; Noce, T. (A cura di). L’Italia dopo l’Unità, Milano: RCS Media Group; Pazzaglia, L. (2001). Ideologie e scuola fra ricostruzione e sviluppo (1946-1958). In L. Pazzaglia & R. Sani (A cura di), Scuola e società nell’Italia unita. Dalla Legge Casati al Centro Sinistra (pp. 447-479). Brescia: La Scuola; Sani, R. (2006). Schools in Italy and Democracy Education in the Aftermath of the Second Word War. History of Education & Children’s Literature, I(2) 37-54; Santamaita, S. (2010). Storia della Scuola. Milano-Torino: Bruno Mondadori. (3) Cfr. Camera dei Deputati, Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, Roma, 1953.
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