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Don Chisciotte e “quel contraccolpo all’altezza della rotula”. Un caso d’arte come “meta-orientamento” alla ricerca e all’azione
di Antonia Chiara Scardicchio   


Lo scritto muove da un evento artistico – una mostra dedicata al don Chisciotte – che diventa ‘sfondo integratore’ per riflettere intorno alle potenzialità formative ed orientative del personaggio letterario di Cervantes e dell’arte come esercizio alla ricerca e all’azione.

L’identità precipua del cavaliere errante coincide con l’identità e la progettualità pedagogiche, muovendo un percorso di “meta-orientamento”, finalizzato alla presa in carico di sé e della realtà in ottica costruttivista: contempl-azione.

The paper moves from an art event - an exhibition dedicated to Don Quixote - which becomes 'integrating background' to reflect on the potential training and guidance of the literary character of Cervantes and art as an exercise in research and action. The identity of the chief knight-errant coincides with Education identity and planning, starting a process of "meta-orientation", aimed at taking care of himself and the reality in constructivist approach: contempl-action.

 

“Per la rischiosa attitudine
ad evocare passioni,
per l’immeritato privilegio concesso all’apparenza sensibile
a scapito della più profonda realtà essenziale, Platone aveva decretato
l’esclusione dell’arte dalla città ideale. […]
Aristotele ne aveva rivendicato
la funzione catartica, ovvero di purificazione dalle scorie dell’esistenza. […]
L’arte riacquistava così dignità
e legittima cittadinanza:
non culto riprovevole delle apparenze, ingannevole illusione,

oscuramento del giudizio. […] Il rischioso percorso nel mondo delle passioni

si risolveva anzi in un processo di autoconoscimento e di trascendimento. […]
L’arte diventava la via ad una conoscenza
che non era frigida speculazione,
ma esperienza psicosomatica integrale;
esercizio intellettuale non meno che scuotimento corporale.”

V. Faenza

1. Dal conoscere come possedere al conoscere come diventare (L. Preta)

Come si riconosce un uomo saggio?
È l’uomo per il quale due più due fa inequivocabilmente quattro, l’uomo che sta nei confini, quadrato, l’uomo che vede solo quel che si vede e non immagina altro, l’uomo tutto d’un pezzo, coi piedi per terra, l’ uomo senza grilli per la testa?
E come si identifica un uomo folle?
È l’uomo per il quale la matematica è una probabilità, l’uomo che sconfina, a zig zag, l’uomo che vede anche quel che non c’è e immagina altro e altrove, l’uomo friabile come un tozzo di pane, con la testa per aria, l’uomo con il vento nella testa?
E cosa distingue la saggezza dalla follia, la ragione dalla poesia (a prescindere dal DSM IV)?
Agli occhi dell’uomo saggio, del tipo “due-più-due-fa-quattro”, il don Chisciotte di Cervantes è uno uscito fuori di senno: ha perso la testa leggendo libri. È diventato quello che leggeva. Letteratura come pericolosa stregoneria, fuorviante apertura e feritoia che introduce a un mondo che non c’è. Peggiore di una ubriacatura questa immersione nella lettura che ti trasporta altrove, mentre il corpo resta fermo, col libro in mano.
Agli occhi dell’uomo-coi-piedi-per-terra, don Chisciotte suscita pietà e forse tenerezza: prova persino benevolente compassione per quest’uomo che prende abbagli, scambiando mulini e donne e pecore per altre visioni. Lui, il realista, considera il cavaliere come icona della deviazione: errante, appunto.
Don Chisciotte lo fa ridere: e lui resta seduto, risoluto nella sua comodità, mai scomodato da alcun impeto di irrealtà. E nel ridere/irridere, l’uomo senza grilli per la testa prova orgoglio e fierezza perché non è come lui, né mai lo sarà: non conosce perdizione, non conosce balzi, solo r-assicurazioni.
L’uomo-incapace-di-balzi è davvero, tra i due, quello savio?
Ai visitatori della Mostra “Dalla parte del torto”, dedicata a don Chisciotte [1] sono state affidate solo domande, nessuna risposta. Perché il suo obiettivo è filosofico: far vivere a chi la attraversa – e per il quale il termine “visitatore” è una riduzione – l’esperienza di un’arte che diventa ricerca non solo per l’artista ma anche per il fruitore/contempl-attore.
Vito Moccia ha dipinto e scolpito un’itineranza, ha materializzato un viaggio: un viaggio di quelli al confine tra fuori e dentro, ove tutte le forme della materia e dell’arte si danno il cambio per raccontare non un personaggio o soltanto una storia ma un incontro, una rivoluzione, un dissestamento. E di più ancora: un modo di sentire, di guardare, di esistere. Un modo di vivere non assopito sul divano: dove due più due non fa sempre quattro e dove la saggezza non coincide col disincanto.
Un modo di vivere in cui l’arte ritrova la sua più profonda e ancestrale identità (Debray,1999): insegnare a guardare. A sentire. A vivere, persino. Contagiando uno sguardo che, anziché irrazionale, educa a pensare.
Così una mostra non è più una “mostra” soltanto: il “visitatore” diventa contempl-attore e partecipa a un progetto (cfr. Nardi, 1991; 2007; 2011) e partecipare è intraprendere un percorso ‘meta’ di orientamento. Paradossalmente, muovendo da un disorientamento. Sicché il visitatore non è più soltanto tale, giacché non gli è richiesta solo una “visita” ma una compromissione. Gli è proposto un contagio. E il passaggio attraverso ogni opera di Moccia implica una trasformazione: tutte, difatti, sembrano parlare. Ci sono sguardi che dagli acquerelli vengono fuori, quasi fossero tridimensionali. Ci sono disegni che sembrano sculture. E sculture che sembrano danze. E installazioni che appaiono come rappresentazioni musicali e insieme teatrali. Immagini e parole si mescolano all’unisono trascinando artista e fruitore verso la medesima direzione: un incontro, una rivoluzione, un modo di esistere. E di guardare.
Un guardare che è ben più che la contemplazione dell’uomo-saggio-immobile-sul-divano: un guardare che è entrare e diventare parte di una metafora. E una metafora particolare: perché Chisciotte è icona e simbolo, invito ed esortazione. Orientamento a prendersi-in-carico la realtà. Ove la sua immaginazione non è patologia ma, come per Calvino (1993), in quanto “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né stato né sarà ma che avrebbe potuto essere” (p. 91), è procedura che insegna a prendersi cura, con coraggio e dedizione, di ciò-che-è e di ciò che, tramite la nostra personale compromissione, può-essere.
Orientamento all’azione. All’agency, nella sua formulazione più complessa: “atteggiamento rispondente” (Cipriani, 2004), ove l’agire muove dalla spinta cognitiva al sottrarsi allo scacco. E ove il proprium umano è, al cospetto del reale, la possibilità di generare l’inatteso: quel “sorprendente” – nell’introduzione di quel quid singolare, storico eppure non relativo, che dice della specificità di ogni singolo essere umano – che, secondo la Arendt, è il miraculum possibile: «Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile» (Arendt, 1988, p. 131).
Non a caso, dunque, quando Bonhoeffer, teologo e pastore protestante arrestato e poi ucciso per aver preso parte a una congiura contro Hitler, in una delle sue lettere dal carcere berlinese si chiese ove fosse il confine tra la “necessaria resistenza” e la altrettanto necessaria “resa al destino”, scelse di identificare la prima con don Chisciotte e la seconda con Sancho Panza (Bonhoeffer, 1996, p. 288).
Resistenza e resa. Due modi differenti di guardare-sentire-pensare. Vivere.
La resa è del realista ma non della razionalità. La resa è del realismo che non crede neppur nella ragione, poiché crede solo in quel che vede. La resistenza, allora, non è rinuncia alla ragione né è irrazionalità: è la sua forma costruttivista e anche quella più fiera di sé: perché sa che può modellare la realtà, non soltanto visitarla (Scardicchio, 2011).
E questa resistenza, questo orientamento a vivere trasformando (Contini, 2004; Girotti, 2006), Moccia lo dipinge e lo scolpisce, usando la sua arte come letteratura: il polistirolo dice della fragilità, l’argilla descrive la creatività. L’acciaio racconta del coraggio, la luce dice dell’innocenza. Ogni tratto e ogni movimento descrivono il contrario della resa. Ed ecco perché tutte le opere sembrano non soltanto parlare ma, meglio ancora, chiamare. Chiamano nel territorio della Mancha: non con la presunzione di chi intende indicare una via come quella giusta ma con l’umiltà di chi si denuda e coraggiosamente condivide col visitatore, seppur sconosciuto, una intimità che inerisce una ricerca, un viaggio, una chiamata appunto. E le parole che da esse trasudano sono quelle, chiare, che riconoscono don Chisciotte come simbolo-del-proprium-umano, conduttore di un viaggio iniziatico in cui – al visitatore che si fa contagiare - la follia trascende il primo sguardo che la considera malattia e addita una saggezza che non è sinonimo di stasi. Ma il suo contrario.
Eppure Chisciotte fa ridere. Al primo sguardo del lettore di Cervantes appare solo il comico. O, meglio, il ridicolo. Allo sguardo più profondo appare il tragico: Dostoevskij lo definì il libro più triste che avesse mai letto e anche Kant lo ritenne tale. Marx lo considerò emblema dell’utopia astratta. Ma uno sguardo che colga solo il comico o solo il tragico dell’opera di Cervantes ne coglie una dimensione soltanto, viviseziona come in laboratorio, perdendo l’intero. Come se si leggesse un film di Fellini come irreale soltanto. E, allora, così come l’onirico felliniano dice della realtà talvolta persino di più di un certo realismo, così don Chisciotte trasuda altri significati dietro le sue allucinazioni. La dinamica realtà/irrealtà che ne emerge è complessa e scientificamente corroborata. Il suo vedere-quel-che-non-si-vede è ben più che indice di follia. È la competenza del vedere-quel-che-non-è-visibile ma che, non per questo, non-è (Merleau-Ponty 1993; 2003). È una vista ad un meta livello che riconosce la realtà come intrisa delle nostre proiezioni, anticipando approdi costruttivistici ed evidenze neuroscientifiche. Chisciotte vede guerrieri: e invece sono solo pecore e montoni. Ma, questa, di fatto, è la norma di ogni nostra visione (Watzlawick, 1981; Frith; 2009; Lucignani & Pinotti, 2007). Lo iato, lo scarto, la linea di demarcazione tra Chisciotte e Sancho non è nella qualità delle rispettive visioni, bensì nel differente modo di stare al loro cospetto. Il primo è mobile, il secondo statico. Il secondo è elegia del passato come eterno presente, il primo è lirica del futuro, prossimo e remoto. Poiché «Don Chisciotte aveva ricavato dalle sue letture antiquarie un aldilà anche nella vita quotidiana» (Buber, 2005, p. 1201): così nel suo «mondo utopico-antiquario”, ripristina «il più insostenibile tra i rapporti, il rapporto tra anticipazione e passato» (ivi, p. 1207).
Ne risulta, allora, «una caricatura dell’utopia»? (ibidem).
La posizione di Buber sembrerebbe, alla fine, andare proprio in questa svalutante direzione: «Egli è il più grande utopista fatto oggetto di romanzo, ma al tempo stesso ne è l’immagine deformata; e in prima istanza, nella primissima e più visibile, Cervantes l’ha solo coperto di scherno. Questo non contiene certamente l’ultima parola, a tal fine Don Chisciotte resta un esempio troppo commovente di coscienza utopicamente attiva, anzi uno degli iniziatori dell’utopia, con giganteschi castelli in aria al di sopra della pianura» (ivi, p. 1208): Buber risente della lettura di Marx, che «particolarmente suscettibile in materia di don Chisciotte» (ibidem) lo considerò «un’incarnazione della falsa coscienza, dell’interpretazione del mondo attraverso principi astratti» (ibidem). Ma Buber stesso riconosce che questa commedia è ben più profonda e complessa di quel che appare travestito da astrattezza – ‘incompetenza’ diremmo col nostro lessico pedagogico contemporaneo – e follia: «il cavaliere è un pazzo semisavio, con molti buchi, con chiare intercapedini in testa. Entro la sua follia egli agisce ponderatamente, anzi a volte stupisce per il suo sobrio giudizio, quasi la pazzia venisse solo finta» (ivi, p. 1212).
La dinamica saggezza/follia qui esplode nella evidenza della sua irrisolvibilità, irriconducibilità a un polo soltanto: l’antinomia ha da restare tale, muovendo da un polo all’altro, come nella teoresi problematicista (Bertin, 1968) come nella expertise alchemica (Jung, 1989), come nell’et et della fisica quantistica (Bohr, 1961).
No, non era un cavaliere hegeliano, Chisciotte (Buber, 2005, p. 1213): non c’è astrattismo nelle sue visioni irreali. Anzi, curiosamente la sua propensione all’azione ne fa l’emblema del pragmatismo, della responsabilità e dell’interventismo. Identificarlo non con l’ingenuità o la patologia ma col coraggio e la competenza di chi muta la realtà perché da essa si sente mosso, è un’operazione (po)etica che Moccia ha tradotto nell’arte pittorica e scultorea proprio come De Luca e Testa (2007) hanno tradotto nello spettacolo “Chisciotte e gli invincibili”. La loro rappresentazione, poetica ed etica, è nata col preciso intento di celebrare l’invincibilità come capacità di non darsi per vinti al cospetto del dato. Che è, curiosamente, proprio quella medesima competenza materialistico-dialettica che lo stesso Buber, nella prefazione al suo monumentale “Il principio speranza”, identifica come docta spes: quella speranza intesa non «soltanto come affetto, come contrapposizione alla paura (poiché anche la paura, come è noto, può essere anticipatrice) ma più essenzialmente come atto orientativo di specie cognitiva)» (Buber, 2005, pp. 13; 15-16).
Questo curioso capovolgimento, che lo muta da fallito in eroe, persegue uno scopo particolarmente ardito: liberare il cavaliere errante da quella particolare aggettivazione per cui “don Chisciotte” è l’appellativo di chi “combatte contro i mulini al vento”, per dire di chi, scioccamente e inutilmente, spreca sogni e azioni. La mostra di Moccia, come l’opera di De Luca e Testa, intenzionalmente capovolge la metafora popolare, giacché ai loro occhi quella follia non è insana né disumana: «Delle due volte che ho letto le avventure di don Chisciotte, non ricordo di aver letto di un suo sogno. Il titolo di sognatore, a mia memoria almeno, non gli si addice. La sua tempra è di quelle che esauriscono il necessario sfogo di sognare senza chiudere gli occhi, in stato di veglia, coi sensi ben presenti. Dorme poco e la sua insonnia brulica di visioni, incantesimi, apparizioni, insomma il repertorio della febbre. Il sognatore il sogno lo subisce, ma pure quando è atroce e lo minaccia a morte, ne esce illeso con un provvidenziale colpo di risveglio. Al contrario, Chisciotte è un visionario, uno che sta in piena realtà sensibile con la vocazione di agire per correggerla. Dove si parla di sognatori e sogni, lui è clinicamente fuori posto» (De Luca, 2008, pp. 21-23) [2].
È dunque, quello attraverso don Chisciotte, un viaggio insieme poetico e politico. Ove “politico” sta per attento all’interesse che non è solo suo, individuale, ma di una comunità e di un bene che è – sempre meno popolarmente – “comune”: «C’è una scena grandiosa …, in cui Don Chisciotte si scaglia contro un teatrino delle marionette. C’è un teatrino delle marionette dove ci sono i buoni e i cattivi. Don Chiosciotte parte dal pubblico, interrompe quella scena e distrugge tutti i nemici, tutti i cattivi della scena. Don Chisciotte è incapace di distinguere tra realtà e finzione. Noi siamo dei Don Chisciotte all’incontrario, incapaci di distinguere tra valori, tra realtà e finzione: rimaniamo spettatori. Il contrario di Don Chisciotte, che invece è un interventista, e non si lascia sfuggire occasione per intervenire» (De Luca, 1997b).
Allora, sebbene nell’immaginario popolare lui sia un “travisatore della realtà”, invero, scrive De Luca, «non distinguere tra realtà e finzione è malattia moderna: distanza che separa le persone dai fatti» e che ci caratterizza come spettatori inerti; siamo dunque noi i travisatori allorquando riduciamo la realtà «a scena dello sguardo», da «guardare da lontano, da tele-visione» (De Luca, 2008, pp. 38; 39; 40).
Ancora una volta, dunque, riprendo Buber (2005) – suo malgrado – per leggere in Chisciotte un principio utopico non deficitario e un orientamento, piuttosto che un disorientamento: l’essenza di Chisciotte è di quelle che non coincidono coll’equazione «ciò che è = ciò che è già-stato», ove «il già stato sopraffà ciò che sorge» e «la raccolta di tutto ciò che è già divenuto costituisce un ostacolo totale per le categorie di futuro, fronte, Novum» (p. 11). Poiché, se è vero che «l’albeggiare del davanti-a-noi esige il suo concetto specifico, il novum esige il suo concetto di fronte» (p. 9) e che «solo un pensiero rivolto al cambiamento del mondo, e che dia forma alla volontà di cambiamento, si riferisce al futuro (allo spazio di nascita non chiuso che ci sta davanti) senza considerarlo un imbarazzo, e al passato senza considerarlo una malia» (p. 11), allora proprio ‘Chisciotte, l’utopista astratto’ incarna, invero, il contrario dell’astrazione. Se, infatti, Buber stesso critica il “pensiero contemplante” in quanto esso «per definizione è unicamente pensiero del contemplabile, cioè del passato» (p. 9) – la cui «essenza coincide semplicemente con il già-stato e la civetta di Minerva comincia il suo volo sempre e soltanto dopo il crepuscolo, quando una configurazione della vita è invecchiata» (p. 12) – è vero che l’essenza di Chisciotte è «al fronte» (p. 23) non al retrum. Il suo pensiero è dunque contempl-attivo (Bello, 1995, p. 54).
E con lui l’arte può diventare un viaggio che non è più poetico soltanto: o, meglio, ove l’aggettivo ‘poetico’ non sta per contrapposto al reale, ove la poesia non è antitesi alla realtà né l’immaginazione è sua negazione. È un viaggio poetico che sta nel reale e che educa al reale. E al pensiero. Non alla sua astrazione.
Ed ecco perché la sua non è storia ma metastoria e, soprattutto, è icona di colui che resta “invictus”. Ove la traduzione in italiano di tale aggettivazione latina non è, come potrebbe sembrare, “invincibile”. William Ernest Henley, che così definì se stesso nel noto omonimo poema, “invincibile” proprio non lo fu, anzi: la tubercolosi lo assediò per tutta la vita e ne causò la morte prematura. E tuttavia – o, meglio: proprio per questo – poté dire di sé esattamente ciò che la traduzione corretta grammaticalmente rivela: invitto, ovvero: “non vinto”.
«Vulnerable, but invincibile» (Werner & Smith, 1998).
E così, quello attraverso cui la mostra conduce è un viaggio verso Dulcinea, metafora di una passione che non è illogica né cieca ma rappresenta il senso della vita stessa, la pienezza e l’esplosione della voglia di vivere in cui vivere non è solo esistere ma esser-ci, come da esortazione heideggeriana. Anche solo provare a esserci: non da uomo solo ben piantato per terra ma da uomo che ha anche il coraggio – che è poetico e politico - di volare con Ronzinante, trasformandolo in Clavilegno. Che a restare fermi son bravi tutti. A guardare don Chisciotte lanciarsi in un’impresa contro i mulini a vento e a ridere di lui non ci vuole coraggio. E neppure intelligenza. Basta il cinismo.
L’incapacità di immaginare non è sinonimo di razionalità, ma del suo impoverimento. Senza immaginazione non c’è neppure ragione.

2. Un’antropo-pedagogia della speranza?

La mostra di Moccia richiama, allora, temi precipuamente pedagogici e rivela la sua potenzialità formativa rispetto a interrogativi fondamentali per chi si occupa di formazione e orientamento. Tanto che, come già anni fa (Scardicchio, 1999), anche in questa sede avverto la necessità di dissentire dall’analisi di Acone a proposito del «crepuscolo senza luce» e dei «colori del tramonto» (Acone, 1994, p. 52) che caratterizzano, secondo la sua lettura, il «dissolversi di ogni umanesimo e di ogni paideia possibile» (p. 7) nella postmodernità.
Scrissi allora che, nonostante l’intento dichiarato dall’autore, «voler trovare le ragioni per una antropo-pedagogia della speranza» (p. IV), in realtà egli pareva esser giunto, piuttosto, a trovare ragioni per una sconfitta: poiché, interrogandosi sul «destino dell’educazione in un’epoca» – che egli definì mestamente «di neonichilismo strisciante, sommerso o manifesto» (p. 15) – concluse decretando l’irreversibile «scacco dell’educazione umana» (p. 115). Tanto che, nonostante affermasse che l’educazione sia «ineludibile, a meno che non si voglia rinunciare alla dimensione del senso dell’essere» (p. 56), in realtà Acone finì col tratteggiare il nostro come il tempo del non-senso insuperabile, affermando e impegnandosi ad avvalorare la tesi – nichilista – secondo la quale «i colori del tramonto prevalgono su quelli dell’aurora». Fino ad argomentare la necessità di un «elogio funebre» dell’uomo e della «stessa praticabilità dell’educazione» : la «diseducazione radicale e fondamentale dell’Occidente – scrisse - diviene il tramonto dell’idea dell’umana educabilità» (pp. 125; 144).
Il suo lamento “disperato”, proprio nel senso di ‘senza via di scampo’, finiva col riguardare, però, soprattutto la pedagogia, ogni progetto di sviluppo ed emancipazione dell’umano, giacché egli, per se stesso, dichiarò di poter fondare la sua speranza in Dio trovando rifugio nella preghiera [3]. Ma, sì facendo, il fondamento della sua speranza sembrò configurarsi piuttosto come un nascondiglio assomigliando, più che alla speranza, alla rassegnazione.
E Acone giungeva così, sicuramente suo malgrado, col costituirsi “prova empirica” della tesi di Granese che postula l’equazione: cristianesimo = rassegnazione, accettazione passiva, sterile, del destino, fatalismo (addirittura “amore del fato”), laddove il fiat voluntas tua venga appunto interpretato come rinuncia all’azione e, in definitiva, come pedagogia dell’acquiescenza, della riproduzione, dell’eterodeterminazione (Granese, 1993, pp. 49 ss).
La visione cosmicamente pessimistica – ed ergo non interventista – cos’altro è, infatti, se non l’esito di quella razionalità che, distrutto il suo sogno di illimitatezza, non conosce altra postura epistemica se non l’autoripiegamento? Non potendo esercitare il suo potere totale sugli eventi, allora questa ratio manichea rinuncia a qualsiasi azione. Passando dall’onnipotenza all’impotenza, narcisisticamente intrappolata nel suo ragionamento binario.
Certo, la strada che conduce “dal fallimento” (inteso come il confronto con la crisi, l’imprevisto, la perdita, il caos) verso una pedagogia “ipocondriaca”, «riduttivamente centrata sull’autosservazione e sulla sopravvalutazione delle proprie patologie», “è breve”: e, proprio per questo, «qualcuno l’ha già percorsa, approdando all’utopia del catastrofico» (Donnarumma D’Alessio, 1996, p. 1288).
Ma, di fatto, «il pessimismo è “antipedagogia” per antonomasia» oltre che un «“furto” di speranza sul […] futuro operato dai profeti di sciagura, inguaribili laudatores temporis acti» (Ferracuti, 1995, p. 85). È il contrario di ogni progetto educativo, il contrario di ogni progetto di orientamento che, per sua natura, implica la categoria del futuro.
Peraltro, la posizione di Acone è la sua propria, non coincide con quella della pedagogia cattolica. E neppure con quella della pedagogia laica. Giacché l’identità precipua delle categorie pedagogiche è – in una prospettiva religiosa tanto quanto in una che non lo sia – quella che anche al cospetto del più lacerante non-senso, riconosce – irriducibile – lo specifico dell’educazione: «lo spazio vitale dell’uomo: quello della sua perfettibilità, della sua realizzazione ultima, dell’assolvimento del compito della sua vita. Perché tale è il senso pieno di educabilità» (Ducci, 1992, p. 18).
E tale è il senso di ogni impegno di orientamento lungo il corso della vita intera. Per la pedagogia cattolica, tanto quanto per quella laica. Non per illusione, suggestione, evasione: «non è elogio del nulla, volontà di distruzione nullificante. Tutt’altro: è spaesamento per una perdita, è elaborazione del lutto, è attesa e ricerca di senso […]. Qui è l’atto-di-volere che fa aggio sul nihil, si impone a esso e reclama una ri-costruzione, di cui la stessa debolezza si rivela alla fine la vera forza: l’unica che ci è permessa; quella della possibilità, del tentativo, dell’operari» (Cambi, 2006, p. 21).
L’esortazione di Franco Cambi si intreccia dunque, pur mossa da premesse e approdi diversi, con la medesima consapevolezza di Edda Ducci: «la crisi è l’ambiente ordinario per l’educativo» (Ducci, 1992, p. 20).
E pertanto, per quanto funesta, nessuna analisi dell’esistente disorientato può condurci a profezie disorientanti che identificano il tramonto come senza scampo. Se è pur vero che, ineludibilmente, il passato è l’“Incorreggibile” (De Luca, 1997a, p. 55), è vero anche che ciò non può dirsi né per il presente né per il futuro. Pena la rinuncia a qualsivoglia intenzionalità pedagogica e a ogni progetto di orientamento inteso come costruzione e ricostruzione: «ogni processo intenzionalmente formativo e tras-formativo, infatti, implica che vi sia la “prefigurazione” di un futuro possibile per il soggetto in formazione» (Pinto, 2012). Come dire: l’utopia è categoria pedagogica, la lamentazione no.

3. L’arte dà da pensare (J. P. Changeux)


E questo è il racconto e, insieme, la potenzialità ‘orientativa’ di ogni opera di Moccia ispirata al don Chisciotte, ove le immagini sono parola e le parole diventano immagine, in una dimensione in cui l’arte si mostra come luogo della realtà, non dell’irrealtà: dove acquerelli, dipinti, sculture, installazioni sono materia, tridimensionalità, empiria. Attraversare questa mostra non è come leggere il libro di Cervantes: è come entrare dentro la sua teatralizzazione. E così funziona come dispositivo formativo e orientativo. Nel segno del racconto delle vicende ma, anche e soprattutto, nel segno del racconto – e non mera illustrazione – di una razionalità, di una visione del mondo, di una possibilità/modalità di esistenza. E ciò perché: «un simbolo è una “versione” vera del mondo. È una versione vera di un mondo, perché, in uno scenario gnoseologico costruzionalistico, ciascuna versione vera costruisce il mondo. [Allora] un oggetto d’arte, agendo da simbolo, funziona analogamente a una versione del mondo, costruendo un mondo proprio. Ma un oggetto d’arte è, per un osservatore, un oggetto al quale dirigere un esercizio gnoseologico: è un mondo, a propria volta – un mondo da osservare, costruendo, del mondo che è l’oggetto d’arte, una versione» (Chiodo, 2006, p. 60).
La metafora donchisciottesca – don Chisciotte e Sancho Panza come simbolo del mondo e delle tensioni che lo costituiscono – diventa allora “meta orientamento”, icona della possibilità di sottrarsi a qualsivoglia scacco, incertezza o liquidità (Bauman, 1999) consentendo di porsi in «una prospettiva che non consenta alla cronaca di prevalere sulla storia o addirittura al Cronos di prevaricare l’Aiòn» (Granese, 1993, p. 9). Chisciotte è metafora di quella inattualità che, nella sua formulazione bertiniana (Bertin, 1977) «implica la superiorità del principio creativo del possibile» (Scuderi Sanfilippo, 2005, p. 176), poiché interpreta e considera la «tragedia esistenziale come ‘cifra dell’uomo della possibilità’» (Erbetta, 2003, p. 17): l’uomo che ‘si arma e parte’.
Orientamento al combattimento? Si, ove esso sia inteso non come violenza ma come impegno per la trasformazione. Impegno a dismettere i panni di Sancho Panza. Combattimento e orientamento: binomio inscindibile, ove il primo non sia aggressione come violenza ma come capacità di andare verso (che è poi l’etimo originario di adgredior [4]), di costruire, di vedere anche ciò che non si vede: esattamente come l’impresa/metafora di don Chisciotte. Per sovvertire l’equazione che fa corrispondere al fiat cristiano la rassegnazione. E la lamentazione [5].
E se Italo Calvino già qualche decennio fa ci avvertiva del pericolo che corriamo quando smettiamo di immaginare – poiché l’immaginazione, ovvero il «potere di mettere a fuoco visioni ad occhi chiusi» – è facoltà umana fondamentale (Calvino, 1993, p. 103) – allora, attraversando il don Chisciotte di Moccia si riceve dall’arte un contagio che è insieme intellettuale e corporale ( cfr. Faenza, 2005): la follia da temere non è quella che ci fa lottare contro i mulini a vento. Ma quella che non ci fa alzare dal divano. E che corrisponde a quella abitudine a risposte automatiche e sequenze meccaniche che dicono, nella visione di Bateson, solo del primo, e più semplice, livello di apprendimento che ci è possibile [6]. Quella modalità di vivere dove l’apprendimento coincide col sopravvivere e non con la ricerca, i salti quantici, l’evoluzione, che sono propri del più elevato livello di apprendimento possibile alle menti umane. Restando nel primo, in ragione della sola modalità stimolo-risposta, nel paradigma causa-effetto, tanto caro al sogno di Laplace, non c’è orientamento che serva. Poiché il vivere perde ogni possibilità di scelta. Di autodirezione. Giacché vivere è arrendersi. Arrendersi alla dinamica bellica darwiniana dove l’adattamento nega il miraculum indicato dalla Arendt. E vivere-sul-divano implica il non sentirsi chiamati: dalla realtà, non dalla immaginazione. Giacché, quest’ultima è il mezzo e la prima resta il fine.
Ecco allora il compito possibile dell’arte nella formazione e nell’orientamento, nel tempo del disincanto e del Cogito-sul-Divano: suscitare mondi/versioni/costruzioni alternative al cospetto dei limiti del reale. Suscitare la responsabilità che viene dalla coscienza costruttivista (von Glasersfeld, 1998) e dalle evidenze neuroscientifiche (Damasio, 1995, 1999, 2003; Le Doux, 2002; Gazzaniga et al. 2005; Lucignani & Pinotti, 2007).
L’estetica, allora, muove l’etica, ove sia scuotimento, turbamento, possibilità di ri-pensare e ri-pensarsi, esercizio di accoglienza della dissonanza cognitiva, in una parola: ricerca. Intesa come quel modus vivendi e operandi che coincide coll’«abituarsi a disabituarsi» (Manghi, 2003): «Noi esseri umani siamo enormemente specializzati nell’adattarci allo stato ordinario delle cose che ci circondano – è ciò che da gran tempo gli psicologi chiamano ‘livello di adattamento’. Non prestiamo più attenzione e innestiamo il pilota automatico. Ma un secolo di brillanti studi neurofisiologici ha anche accertato che, laddove ci addormentiamo davanti alla monotonia, la nostra attenzione è specializzata a mantenerci vigili di fronte alle deviazioni dalla routine. L’inaspettato ci allarma come nessun’altra cosa al mondo. Anzi, una generazione fa, alcuni neurofisiologi riportarono dei premi Nobel per aver scoperto che i messaggi sensoriali inviati alla corteccia cerebrale vengono trasmessi non solo per i consueti tramiti sensori, ma sono portati al cervello anche per un’altra via, il sistema reticolare ascendente, la cui principale funzione è quella di risvegliare la corteccia, di sgombrarla dal monotono tipo di onde in cui l’Es si adagia quando siamo confortevolmente annoiati» (Bruner, 2002, pp. 34-35).
All’opposto dell’area di comfort, cognitivo e comportamentale, c’è dunque la ricerca come postura, tanto epistemica quanto operativa, che muove da e verso l’assunzione di responsabilità rispetto alla realtà. Assumersi come progetto (Grimaldi & Quaglino, 2005) e sentire la realtà stessa come progettabile è il primo passo di ogni percorso di orientamento complesso nel tempo della complessità (Callari Galli, Cambi & Ceruti, 2003) [7]. E nella reticolarità che dice del reale, nel quadro composito di competenze, personali e professionali che esso evoca per essere abitato (Loiodice, 2005; 2009), l’arte rivela il suo isomorfismo con la realtà.
La mostra di Moccia si è rivelata così, pedagogicamente feconda: tutti i feedback dei partecipanti sul “Quaderno dei visitatori” non erano relativi ai quadri! Ma al contagio ricevuto. Dis-orientamento e insieme orientamento.
L’estetica di cui qui si discute non è dunque intesa come scienza del giudizio sul ‘Bello’, ma come scienza delle compromissioni, dei contagi (Gadamer, 1983; 1986), della percezione del legame eco-logico tra mente e natura, cognizione e azione, confini e contorni [8] (Bateson, 1984, 1993; 1997).
La vicenda di don Chisciotte, tra arte e letteratura, nella mostra allestita da Moccia ha funzionato dunque come “sfondo integratore” (Zanelli, 1986; Canevaro, 1988) di una progettualità formativa destinata agli adulti e a coloro che si preparano a esserlo [9]. Una mostra può così diventare motivo di apprendimento, fruizione che diventa creazione, assimilazione che diventa accomodamento. Come ha scritto la Pinto (2012) allora, le prefigurazioni dell’arte si saldano all’utopia pedagogica, che non è solo contemplazione del possibile ma anche sua implementazione: «Se è vero, dunque, che la scienza della formazione condivide con l’arte la categoria della “prefigurazione”, la rivendicazione della categoria del “possibile” si traduce in tensione autenticamente utopica. Si traduce, cioè, nella progettazione di condizioni fisiche e simboliche in cui assicurare ad ogni soggetto in formazione la possibilità concreta di aprire la propria singolare avventura formativa al mutamento, alla scelta, all’autodeterminazione, autentico obiettivo, quest’ultimo, dell’intero processo formativo. È, dunque, adottando il punto di vista che ha in comune con l’arte – il punto di vista attraverso il quale vedere un passo in avanti nel futuro – che la scienza della formazione assume, oggi, il compito e la responsabilità di osservare la preoccupante evoluzione in atto […] e quindi di delineare l'utopia possibile di una formazione che sia in grado di affrontare il non-ancora che è nel nostro futuro ma che è anche, già, nel nostro presente».
E così l’arte rifugge il pericolo, additato da Gadamer, di ridursi a «semplice e casuale riempimento di spazi del tempo libero» [10], laddove non resta muta e immobile, né lascia ammutoliti e immutati, bensì muove, scuote, sveglia. Esercita. Orienta. È visione e metodo, teoresi e didattica. Lifelong guidance (Orefice, 2009) necessaria e vitale nel tempo della educabilità continua [11]. Sicché molteplici sono le sue potenzialità formative e orientative – al crocevia tra antropologia e filosofia, neuroscienze e psicologia, seconda cibernetica (Barbetta & Toffanetti, 2006) e pedagogia (Bertin & Contini, 2004) – per gli uomini e le donne della postmodernità.
Eppure, curiosamente, resta impossibile definire ‘innovativa’ la proposta – epistemologica e didattica – della via dell’arte nella formazione e nell’orientamento, giacché dall’inizio dei tempi è proprio il linguaggio simbolico a essere al cuore stesso dell’evoluzione/poiesi umana e della formazione-per-tutta-la-vita: la danza tra realtà e immaginazione, scienza e arte, visibile e invisibile.
(E nella scelta tra il Cogito-sul-Divano e il Cogito-su-Clavilegno).


… bello e saggio il pensiero e l’atto forsennato di Michelangelo
davanti al suo Mosè pieno di torsioni e di vita pronta a esplodere.
La martellata sul ginocchio di marmo, il “perché non parli?” […]
estraggono vita perpetua da forme imprigionate.
E tutti noi al colpo di martello dell’artista
abbiamo risentito per reazione un certo contraccolpo
all’altezza della rotula.

E. De Luca

 

Note

[1] Svoltasi dal 16 al 23 ottobre 2011, presso il Palazzo San Domenico a Rutigliano Bari, col Patrocinio della Presidenza della Regione Puglia. Cfr. www.artemoccia.it; http://www.youtube.com/watch?v=UsL_UfLIJ_s.
[2] Eppure invincibile: l’ “invincibile che non ne vince una, resta invincibile perché da nessuna sconfitta annientato, anzi da ogni sconfitta resuscitato per battersi di nuovo”. (De Luca, 2008, p. 27)
[3] Perché ritiene di dover fuggire i “pericoli”, indicati da S. Agostino, della “disperazione senza scampo” e della “speranza senza fondamento” (p. 241).
[4] Adgredior deriva da ad, proposizione (moto a luogo) che significa “verso, contro, allo scopo di…” e gredior, che deriva da “gradi” (di origine celtica) che significa “camminare, procedere per passi, avanzare”. Da gredior derivano tutte le parole che sottolineano l’andare, la vicinanza, l’entrare in contatto, come, per esempio, in-gredior = andare dentro, pro – gredior = andare avanti, re-gredior = andare indietro.
[5] Il che non corrisponde allo specifico del messaggio cristiano ma solo a sue traduzioni soggettivistiche. Eloquente al proposito la pagina di Bello (1995) che segue: "Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore": queste le prime righe di un documento del Concilio, la "Gaudium et spes", andate forse un po' nel dimenticatoio. Con queste parole, il 7 dicembre 1965, la Chiesa, grazie al Concilio, planava dai cieli della sua disincarnata grandezza e sceglieva di collocare definitivamente il suo domicilio sul cuore della terra. È come se avesse annullato di colpo la barriera di secolari distanze, accettando di diventare coinquilina degli stessi condomini abitati dai comuni mortali. Ha rinunciato spontaneamente per sempre a quella zona di rispetto creatale da antichi prestigi: non per timore della sua solitudine, ma preoccupata della solitudine degli uomini. Con quel preludio solenne, diga squarciata dei pensieri di Dio, la Chiesa sembra dire al mondo così: d'ora in poi, le tue gioie saranno le mie; spartirò con te il pane amaro delle identiche tristezze, mi lascerò coinvolgere dalle tue stesse speranze, e le tue angosce stringeranno pure a me la gola con l'identico groppo di paura. […] È incredibile. Eravamo abituati a condividere solo i dolori del mondo. Eravamo esperti nell'arte della compassione. Nelle nostre dinamiche spirituali aveva esercitato sempre un fascino irresistibile il cireneo della croce. Ma i maestri di vita interiore non ci avevano fatto mai balenare l'idea che ci fossero anche i cirenei della gioia.” (pp. 35-36).
[6] Bateson (1993) distingue quattro livelli di apprendimento. L’apprendimento di tipo 0 è quello in cui “le connessioni causali tra “stimolo” e “risposta” sono ‘saldate’ “ (p. 309), ovvero è un sistema di apprendimento automatico, determinato da condizionamenti genetici o ambientali tali da non implicare retroazioni e dunque correzioni: avviene senza la mediazione della consapevolezza di colui che conosce. L’apprendimento di tipo 1 implica, invece, la possibilità di alternative: è quello meccanico, proprio degli studi sul condizionamento pavloviani e skinneriani, che si caratterizza per il procedere per prove ed errori e, dunque, per il produrre la modifica del comportamento a partire da quanto appreso dall’errore, inteso come retroazione. L’apprendimento di tipo 1 produce cambiamenti nel soggetto che apprende che si caratterizzano per l’essere cambiamenti “nella specificità della risposta”, ovvero l’apprendimento di un’azione semplice in un determinato contesto. L’apprendimento di tipo 2 è un tipo di apprendimento superiore, poiché implica l’apprendimento non già di una risposta specifica ma di un pattern di risposte possibili in un determinato contesto: si configura dunque come metaapprenderimento, ovvero come apprendere ad apprendere. L’apprendimento 1 è dunque apprendimento di azioni; l’apprendimento 2 è apprendimento di azioni-in-un-contesto. Entrambi restano dunque nell’autoreferenzialità di un sistema di abitudini che si muove sempre all’interno dello stesso pattern di, seppur diversificate, possibilità: è un loop che si autogenera e autogiustifica. Entrambi generano cambiamenti ma sempre all’interno di un sistema che resta immutato. Bateson identifica poi nell’apprendimento di tipo 3 quell’apprendimento, “assai difficile e raro”, che muta il sistema stesso: poiché mentre gli apprendimenti 1 e 2 derivano dalle premesse che sottendono azioni e decisioni, l’apprendimento di tipo 3 è quello che modifica le premesse stesse. Ovvero: implica un cambio di epistemologia (p. 319).
[7] Sui percorsi di orientamento come formazione alla coscienza di sé e del proprio potere ‘costruttivo’, a livello cognitivo ed ergo pragmatico, scrive Lopresti: “Il considerare i soggetti come attivi costruttori di modelli di realtà, porta necessariamente a focalizzare l’attenzione sull’analisi dei processi soggettivi che sostanziano tali dinamiche costruttive e la realtà organizzativa che ne deriva. Questo, è certamente uno dei nodi dell’orientamento formativo che si esprime nella necessità di mettere in discussione i sistemi di sapere che governano implicitamente le proprie scelte, contemplando la possibilità di divenire consapevoli che il proprio modo di leggere la realtà non è l’unico, ma è parziale e revisionabile. Tale operazione fondamentale consente di assumere nei confronti dell’esperienza e dell’esercizio alla scelta una posizione critica, fondata sulla coscienza di sé e sullo statuto relativo del sapere; quest’ultimo esclude la possibilità di delega all’esterno per la definizione dei propri percorsi di scelta e implica, invece, una assunzione di consapevolezza del soggetto che, in prima persona, è l’unico vero responsabile della realtà che crea per sé: in un’epoca di profondi e rapidi mutamenti ciò sembra certamente un obiettivo non secondario nella orchestrazione di strategie orientative." (Lo Presti, 2009, p. 120).
[8] “Per estetico, intendo sensibile alla struttura che collega” (Bateson, 1984, p. 29).
[9] L’allestimento della mostra, nonché l’evento di apertura, caratterizzato da performances teatrali, musiche e letture, è stato affidato a una associazione giovanile del territorio.
[10] Gadamer (1986; 2002) critica con vigore la riduzione del’arte a “passatempo, intrattenimento, ricreazione” ove “la nostra esperienza dell’opera d’arte” resta “superficiale, formale, gratuita” (D’Angelo, 2003, pp. 25-27) neutralizzando il suo potenziale gnoseologico e formativo.
[11] Scrive Orefice: “Educabilità, in sintesi, significa apprendibilità, costruzione continua dei significati attraverso la selezione e l’elaborazione dei segni provenienti dal mondo, significati che a loro volta contribuiranno alla costituzione di nuovi segni. Non sono i segni che vengono a noi, è la mente che li “prende” e seleziona per attribuire significati in un sistema aperto al cambiamento biopsichico, culturale e sociale. Come nell’alimentazione, noi prendiamo un cibo e lo rielaboriamo per trasformalo in cellule ed energia per l’organismo, così avviene per i segni, che entrano nella mente per essere destrutturati, rielaborati e generare altri significati. Questa è l’educabilità del soggetto: la capacità di selezionare segni, rielaborarli per costruire significati che contribuiscono alla costruzione della propria identità. […] Il ruolo della guidance come accompagnamento all’educabilità, considerato che la costruzione dei significati è in parte non consapevole, è pertanto quello di far emergere la dimensione nascosta di tali significati, lavorare sui loro aspetti impliciti e pre-consci. La base dell’educabilità si realizza in questo processo circolare tra segni, elaborazioni mentali e significati." (Orefice, 2009, p. 81).

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